Di Anna Toniolo
Lo scorso 23 aprile il Senato italiano ha votato e approvato le modifiche previste per il decreto legge sull’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), proposte dalla commissione Bilancio della Camera dei Deputati e già passate attraverso il voto della Camera. Tra le modifiche è presente un emendamento che stabilisce e rafforza l’accesso delle associazioni antiabortiste nei consultori, prescrivendo che le Regioni, nell’organizzare i servizi dei consultori, possano avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, «anche del coinvolgimento di soggetti del Terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità». La modifica era stata originariamente proposta dal deputato di Fratelli d’Italia Lorenzo Malagola e prevedeva l’ingresso automatico di queste associazioni nei consultori, ma la commissione Bilancio aveva poi riformulato la revisione come è stata successivamente approvata dal Senato. Il Senato ha convalidato le modifiche nonostante la portavoce della Commissione europea per gli Affari economici, Veerle Nuyts, avesse dichiarato pochi giorni prima che nel decreto erano presenti alcuni aspetti che non hanno alcun legame con il Pnrr, come il punto che riguarda l’aborto.
La misura ha sollevato molte proteste ed è stata identificata dai movimenti femministi come un attacco alla libertà delle donne. L’accesso delle associazioni antiabortiste nei consultori era consentito già prima dell’approvazione di questo emendamento, ma ora questa pratica ha ottenuto ulteriore legittimità.
Di pari passo con la rinnovata vitalità delle associazioni cosiddette “pro vita”, queste vicende hanno rafforzato ancora di più una serie di narrazioni utilizzate per consolidare e legittimare la lotta contro l’aborto, che in molti casi, però, sfruttano una serie di notizie infondate, non supportate dalla scienza e dai dati. Una serie di falsi miti sull’aborto perlopiù basati su interpretazioni distorte o deliberatamente scorrette della letteratura scientifica, manipolazioni statistiche e utilizzo di fonti non scientificamente affidabili, che rendono difficile – per le persone comuni, ma anche per i professionisti – distinguere i fatti reali dalla finzione. E l’obiettivo è sempre lo stesso: fare proselitismo e provare a imporre la propria posizione a ogni costo, anche quando questo significa basare la propria narrazione su informazioni false, quando non apertamente pericolose.
Abortire non aumenta il rischio di cancro al seno
Uno dei cavalli di battaglia che da anni le associazioni pro vita portano avanti è quello secondo cui l’aborto volontario aumenterebbe il rischio di cancro al seno. In un comunicato stampa pubblicato il 22 aprile 2024 su Adnkronos, l’associazione antiabortista Pro Vita & Famiglia ha dichiarato che l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) incrementerebbe il rischio di cancro al seno «del 44% per chi subisce un aborto indotto fino a salire addirittura all’89% per chi ne subisce tre».
Questa ipotesi sarebbe supportata dalla cosiddetta teoria “Abc: abortion-breast-cancer” (in italiano: aborto-cancro-seno) secondo cui l’aborto indotto rappresenterebbe un fattore di rischio per il cancro alla mammella. In particolare, questo assunto si concentra sull’impatto che i cambiamenti ormonali causati dalla gravidanza e dalla sua interruzione avrebbero sul seno. All’origine di questa teoria c’è l’attivista anti-abortista e avvocato Scott Somerville, che all’inizio degli anni ‘90 autopubblicò un opuscolo intitolato “Il legame tra aborto e cancro al seno”. L’opuscolo era stato pubblicato dall’Abortion Industry Monitor, un’organizzazione contro l’aborto di cui Sommerville era presidente. Il principale collaboratore di Sommerville era il dottor Joel Brind, professore di biologia ed endocrinologia al Baruch College della City University di New York. Alla base del loro opuscolo c’erano degli studi del 1957, che sono stati definiti da altri scienziati fallaci e poco affidabili. Inoltre, tale teoria si fonda su un’ampia citazione della letteratura non sottoposta a peer-review che, come abbiamo ampiamente spiegato su Facta, è uno degli elementi fondamentali per riconoscere uno studio scientifico affidabile.
In realtà non vi è alcuna evidenza scientifica affidabile che suggerisca un collegamento diretto tra l’aborto e un aumento del rischio di cancro al seno. Numerosi studi condotti da istituti di ricerca medica e organizzazioni sanitarie internazionali hanno concluso che non esiste un legame causale tra l’aborto e il rischio di sviluppare il cancro al seno.
Il National Cancer Institute (NCI), la principale agenzia del governo degli Stati Uniti per la ricerca e la formazione sul cancro, ha dichiarato che gli studi retrospettivi, cioè che misurano eventi accaduti in un periodo precedente rispetto allo studio e che negli anni ‘90 hanno associato l’IVG all’aumento del rischio del cancro al seno, presentavano importanti limitazioni di progettazione che avrebbero potuto influenzare i risultati. Un punto critico di questi studi era rappresentato dal fatto che si basavano sull’autodichiarazione delle informazioni mediche da parte delle partecipanti, il che, spiega il NCI, potrebbe introdurre alcune distorsioni. Gli studi prospettici successivi, cioè sperimentazioni cliniche in cui le persone coinvolte vengono seguite dall’inizio dello studio e fino alla sua conclusione, più accurati nella loro progettazione e non soggetti alle distorsioni legate alle autodichiarazioni delle partecipanti, hanno invece costantemente confermato che non vi è alcuna correlazione tra aborto indotto e rischio di cancro al seno.
In generale, è probabile che gli studi retrospettivi abbiano riportato risultati fuorvianti perché le donne che avevano sviluppato un cancro al seno potrebbero essere state più propense a riferire i loro aborti, contrariamente alle donne sane che non avevano incentivi precisi a condividere informazioni così personali e delicate. Il principio per cui questo accade è quello del cosiddetto recall bias, cioè un errore sistemico causato da differenze nell’accuratezza o nella completezza dei ricordi dei partecipanti in merito a eventi o esperienze del passato.
Già una ricerca pubblicata nel 1997 sul New England Journal of Medicine e condotta su un milione e mezzo di donne in Danimarca non aveva trovato alcuna connessione tra interruzione volontaria di gravidanza e cancro al seno.
In aggiunta, nel 2009, il Committee on Gynecologic practice dell’American College of Obstetricians and Gynecologists ha stabilito che «ricerche recenti condotte più accuratamente non hanno evidenziato alcun legame diretto tra l’aborto indotto e un aumento successivo del rischio di cancro al seno». Anche nella seconda edizione delle linee guida per un aborto sicuro pubblicate nel 2012 dall’Organizzazione mondiale per la sanità (OMS) viene evidenziato come i dati epidemiologici affidabili non mostrano un aumento del rischio di cancro al seno per le donne che hanno avuto un aborto spontaneo o indotto. Esiste una lunga lista di studi e ricerche che smentiscono il rapporto tra cancro al seno e aborto.
Infine, ad oggi, l’aborto non compare come fattore di rischio per il tumore al seno né nella lista fornita dai Centers for Disease Control and Pevention (CDC), né in quella dell’American Cancer Society. L’aborto non è citato tra le cause di questa tipologia di cancro nemmeno dall’Istituto superiore di sanità (ISS), né dal ministero della Salute italiano.
Altri (falsi) rischi per la salute
Secondo i movimenti antiabortisti, inoltre, l’IVG non solo rappresenterebbe un fattore di rischio per il cancro al seno, ma sarebbe un intervento pericoloso in generale per la salute della donna, causando «infezioni pelviche o genitali, emorragie, perforazioni e cicatrizzazioni della parete uterina, aborti spontanei successivi». Anche in questo caso si tratta di una narrazione generalizzata, che non fornisce i corretti parametri di misura a chi legge determinate informazioni.
La più recente relazione ministeriale sull’attuazione della legge 194/78, tutela della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza mostra che in Italia la percentuale di IVG senza complicanze nel 2021 è stata del 98,02 per cento, cioè la quasi totalità degli interventi. Nello 0,38 per cento dei casi la complicanza è stata rappresentata da un’emorragia, mentre nello 0,03 per cento da un’infezione, nell’1,33 per cento dei casi si è trattato di un aborto mancato o incompleto e, infine, nello 0,40 per cento di altre complicanze non definite nella tabella riportata dal ministero. Poco più del 2 per cento dei casi di IVG, invece, ha riportato complicanze che non sono state rilevate e non sono quindi definite.
Aborto e salute mentale
Ma queste sono solo alcune delle tante notizie infondate promosse dai movimenti antiabortisti. Sempre secondo l’associazione antiabortista Pro Vita & Famiglia, infatti, gli studi mostrerebbero «il forte impatto» dell’interruzione volontaria di gravidanza «sulla salute mentale», in quanto «le donne che subiscono aborti indotti» rischierebbero «depressioni, disturbo post traumatico da stress, abuso di sostanze e comportamenti autolesionistici fino al suicidio».
Pur senza negare il fatto che decidere di abortire per alcune persone possa essere un’esperienza dura e traumatica, dipingere l’IVG come un evento che avrà certamente effetti negativi sulla salute mentale è fuorviante, poiché generalizzare è dannoso e il dibattito scientifico al riguardo non è così lineare.
In base a quanto riportato dalla seconda edizione delle linee guida per un aborto sicuro dell’OMS, conseguenze psicologiche negative si verificano in un numero molto ridotto di donne e sembrano essere la continuazione di condizioni preesistenti, più che il risultato dell’esperienza dell’aborto volontario. Ma la questione è più complicata di così.
Nel 2008 l’American Psychological Association (APA), cioè la principale organizzazione scientifica e professionale che rappresenta la psicologia negli Stati Uniti, aveva messo insieme un gruppo di lavoro su salute mentale e aborto, con l’obiettivo di effettuare un riesame delle evidenze scientifiche sul tema. La sintesi di questa ricerca fa prima di tutto una premessa importante, evidenziando come le donne optano per l’IVG per motivi diversi, in momenti diversi della gestazione e, soprattutto, all’interno di contesti sociali, personali, economici e culturali differenti. Tutti questi fattori, si legge ancora, possono portare a una variabilità nelle reazioni psicologiche successive all’aborto. Di conseguenza, secondo l’APA, «le affermazioni generiche sull’impatto psicologico dell’aborto sulle donne possono essere fuorvianti».
Inoltre, lo stesso report evidenzia come la possibilità di incorrere in disturbi psicologici tra le donne con gravidanze indesiderate non era maggiore, nell’ambito di aborti volontari nel primo trimestre, rispetto alla decisione di proseguire con la gravidanza. La situazione era, invece, meno lineare quando si consideravano gli aborti multipli, poiché il rischio di problemi di salute mentale poteva essere influenzato da vari fattori ambigui e ingannevoli per la ricerca. In generale, nella revisione viene comunque sottolineato che nessuna delle fonti esaminate aveva affrontato in modo adeguato la presenza di problemi di salute mentale tra le donne negli Stati Uniti che avevano avuto un aborto volontario. Complessivamente, comunque, la prevalenza dei problemi di salute mentale osservati tra le donne negli Stati Uniti che hanno avuto un singolo aborto legale nel primo trimestre, per motivi non terapeutici, era in linea con i tassi normativi dei problemi di salute mentale riscontrati nella popolazione generale di donne negli Stati Uniti.
L’anno successivo, cioè nel 2009, un altro studio ha aggiornato il rapporto del gruppo di lavoro dell’APA, dimostrando come, negli Stati Uniti, il rischio di problemi di salute mentale tra le donne adulte che hanno avuto un singolo aborto legale al primo trimestre di una gravidanza indesiderata non fosse maggiore del rischio tra le donne che arrivano alla fase del parto in una gravidanza indesiderata. Inoltre, le prove analizzate non hanno supportato l’idea che eventuali problemi legati alla salute mentale siano causati direttamente dall’aborto, ma hanno fatto notare l’importanza di valutare altri fattori di rischio già presenti e concomitanti. La ricerca ha infine evidenziato come troppo spesso l’aborto viene considerato come un evento unico, vissuto allo stesso modo da tutte le donne. Questo, però, è fuorviante, poiché invece l’interruzione volontaria di gravidanza comprende una varietà di esperienze diverse e le reazioni delle donne a questo evento possono variare in modo significativo.
Anche altri studi e ricerche hanno confermato la stessa tendenza, suggerendo poche, se non nessuna, differenza tra le donne che hanno abortito e i rispettivi gruppi di confronto in termini di salute mentale. Evidenziando, inoltre, come i risultati che hanno rilevato un aumento dei problemi legati alla salute mentale nelle donne che hanno volontariamente abortito siano derivati da studi la cui metodologia scientifica è considerata scarsa e carente.
La salute mentale resta comunque un tema dibattuto, e ciò che è fuorviante è la sicurezza e la generalizzazione con cui movimenti antiabortisti legano l’IVG a problematiche legate alla salute mentale. È sempre opportuno assicurare a chiunque tutto il supporto psicologico di cui ha bisogno, perché ogni persona è diversa, ogni aborto è diverso e ogni contesto si differenzia dagli altri.
Recentemente il Parlamento europeo ha votato a favore dell’inserimento dell’interruzione di gravidanza nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, uno strumento del diritto dell’UE che tutela e promuove i diritti e le libertà delle persone. La proposta è stata approvata con 336 voti favorevoli e 163 contrari, anche se si è trattato di un voto puramente simbolico. La risoluzione, infatti, non è vincolante e richiederebbe l’appoggio unanime di tutti i 27 Stati membri per essere inclusa nella Carta.
L’IVG resta, ad oggi, fortemente limitata in alcuni Paesi dell’UE, che stanno di fatto limitando un diritto che l’Unione europea vorrebbe riconoscere come fondamentale. E la disinformazione portata avanti dalle associazioni e dai movimenti antiabortisti contribuisce a limitare il diritto di scelta di chi vuole interrompere volontariamente la gravidanza, con enormi conseguenze sulle vite delle persone.