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La disinformazione prima di Internet – Comunicare per il potere e il potere della comunicazione

Un racconto a puntate di come le informazioni false o fuorvianti accompagnano l’umanità dall’alba dei tempi, fino a perdersi nella leggenda

7 dicembre 2024
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Nel giugno 1971, il New York Times e il Washington Post iniziarono a pubblicare alcuni documenti, ribattezzati poi Pentagon Papers, tramite i quali l’opinione pubblica americana scoprì che diversi presidenti avevano mentito a cittadini e Parlamento sulla guerra in Vietnam. Almeno quattro amministrazioni, da Truman a Johnson – così dimostravano i documenti copiati da fascicoli riservati del Pentagono, da cui il nome – avevano disatteso le politiche annunciate sul Vietnam e tenuto nascoste diverse azioni militari, mentre risultati e condizioni dei combattimenti sul campo erano diversi da quelli dichiarati. Ne seguì uno scandalo che il presidente Nixon tentò di mettere a tacere diffidando i giornali dal pubblicare ulteriori documenti, adducendo che dalla loro pubblicazione potessero derivare danni irreparabili per la sicurezza nazionale. Il caso finì per questo alla Corte Suprema, che tuttavia stabilì che le pubblicazioni fossero lecite e potevano proseguire. «La stampa deve servire i governati, non i governanti», disse il giudice Hugo Black. La vicenda è stata trattata in diversi libri e ha anche ispirato The Post, un film diretto da Steven Spielberg. E non per niente.

Quello dei Pentagon Papers è infatti uno dei più grossi casi di menzogne dette dai politici nel più grande e influente dei Paesi democratici occidentali, che provocò un’ondata di indignazione internazionale. Un simile scandalo, allora, aveva effetti dirompenti nelle opinioni pubbliche. Le menzogne palesi da parte di personaggi pubblici (e ancora di più se politici di primo ordine) non erano tollerate come ai giorni nostri. Ora infatti le cose sono un po’ cambiate, e per diverse ragioni: c’entrano Internet, i social network e l’era della post-verità, che hanno accelerato la diffusione di informazioni false. Ancora una volta, però, le radici sono datate: di campagne politiche portate avanti diffondendo informazioni non vere si hanno tracce fin dalle grandi civiltà dell’antichità.

Lotte per il potere…

Oltre al caso di Pausania, di cui abbiamo parlato nel primo articolo di questa serie, si trovano esempi celebri già nell’antica Roma. Un noto caso di propaganda politica in questo senso è la campagna di disinformazione condotta da Ottaviano contro Marco Antonio. Durante il periodo del secondo triumvirato, circa duemila anni fa, Ottaviano utilizzò una vasta gamma di mezzi per screditare il suo rivale, costruendo una narrazione che dipingeva Marco Antonio come un traditore dei valori romani, alla mercé della regina egiziana Cleopatra.

Per mezzo di poesie o slogan brevi stampati sulle monete, Antonio venne descritto come un ubriacone e un uomo che aveva rinunciato alla propria romanità, cedendo alla corruzione orientale: si suggeriva che volesse trasferire il potere da Roma ad Alessandria, mettendo Cleopatra e i loro figli al centro dell’impero. Questa campagna culminò con la lettura pubblica di un presunto testamento di Marco Antonio, la cui autenticità è dibattuta ancora oggi, che Ottaviano affermò di aver ottenuto in maniera segreta. Pur ammesso che il testamento fosse originale, comunque, i suoi punti più controversi vennero amplificati e distorti dal triumviro rivale: per esempio, i presunti piani di Antonio di essere sepolto ad Alessandria vennero usati per rafforzare l’accusa che egli fosse più fedele a Cleopatra che a Roma. In pratica, la stessa cosa che fa oggi la propaganda russa con la leadership ucraina, accusata in diverse storie false di corruzione morale e asservimento alle potenze occidentali e alla Nato.

Attraverso la lettura di questo presunto testamento, Ottaviano riuscì insomma a manipolare a proprio favore l’opinione pubblica romana, mobilitando il Senato e il popolo contro Antonio e preparando il terreno per lo scontro decisivo, che culminò nella battaglia di Azio nel 31 a.C. La propaganda di Ottaviano fu così efficace che contribuì alla definitiva rovina di Antonio e Cleopatra e alla nascita del principato di Ottaviano come Augusto, il primo imperatore romano.

Ogni campagna di questo tipo, ovviamente, è aumentata di complessità e diffusione con l’avvento delle tecnologie che si sono man mano sviluppate, prima tra tutte la stampa. Con il nuovo modo di trasmettere la conoscenza anche le notizie si potevano diffondere più rapidamente, vere o false che fossero.

Lo ha sperimentato in prima persona re Giorgio II, sovrano di Gran Bretagna e Irlanda intorno alla metà del 1700, quando si trovò a fronteggiare la ribellione giacobina. I ribelli produssero delle stampe secondo cui il re versava in uno stato di salute precario, nel tentativo di descriverlo come debole e incapace di governare gli inglesi. Altri tipografi videro i volantini propagandistici e riprodussero a loro volta le stampe, in una reazione a catena che ricorda la diffusione di post o altri contenuti falsi oggi sui social network. La rivoluzione alla fine non ebbe successo, ma il caso è emblematico di come i mezzi di stampa furono influenzati dalla propaganda ribelle e la notizia falsa venne amplificata dalle varie ristampe.

…e disinformazione di Stato

Ci sono poi casi sfruttati sul piano politico da campagne di propaganda, spesso farcite o originate da notizie false, che hanno visto la compartecipazione di apparati statali o servizi segreti. L’affaire Dreyfus, tra i primi da quando è nata la concezione moderna di Stato, fu uno dei più gravi scandali politici e giudiziari della Francia alla fine del XIX secolo, che mise in evidenza l’uso della disinformazione e l’antisemitismo come strumenti di manipolazione pubblica.

Nel 1894, il capitano Alfred Dreyfus, ufficiale dell’esercito francese e di origine ebraica, fu ingiustamente accusato di tradimento e di aver trasmesso segreti militari alla Germania. Si trattava di un’accusa particolarmente grave all’epoca dei fatti, perché era ancora parecchio sentita dal popolo francese la perdita dell’Alsazia e della Lorena nella guerra franco-prussiana. Sebbene mancassero prove concrete, Dreyfus fu condannato principalmente a causa di un diffuso pregiudizio antisemita all’interno delle istituzioni militari e della società francese dell’epoca, in un processo a porte chiuse caratterizzato da violazioni dei diritti di difesa.

Il caso divenne un simbolo di come la disinformazione potesse permeare le istituzioni e indurre in errore interi apparati dello Stato e in parte proprio promossa dall’interno delle istituzioni. L’esercito francese, infatti, determinato a coprire il vero traditore, che gli storici sono concordi fosse il maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy, produsse finti documenti per incolpare Dreyfus. I documenti artefatti – tra cui il falso Henry, faux Henry in francese, un foglietto di carta con delle annotazioni – furono usati per confermare la sua colpevolezza e mantenere la narrazione ufficiale.

Una scansione del Faux Henry, uno dei documenti artefatti per incolpare Dreyfus

La vicenda prese una svolta quando l’ufficiale Georges Picquart, a capo della sezione di intelligence dell’esercito, incaricato di cercare ulteriore materiale comprovante della colpevolezza di Dreyfus scoprì invece che le prove erano state falsificate e che il vero colpevole era Esterhazy. Picquart tentò di far riaprire il caso, ma fu ostracizzato dall’esercito, che era determinato a proteggere la propria reputazione a scapito della giustizia. La situazione esplose nel 1898, quando lo scrittore Émile Zola pubblicò l’articolo “J’accuse” sulla prima pagina del giornale L’Aurore. L’articolo accusava il governo e l’esercito di aver complottato per incolpare Dreyfus e di aver costruito una campagna di menzogne per coprire la verità. Fu un intervento significativo per l’opinione pubblica e portò alla divisione della società francese tra i Dreyfusards (sostenitori di Dreyfus, che volevano giustizia) e gli anti-Dreyfusards (coloro che lo ritenevano colpevole, spesso influenzati da sentimenti nazionalisti e antisemiti).

L’articolo di Émile Zola sul quotidiano L’Aurore

Sebbene anche questo sia un caso di disinformazione che potremmo definire ad personam, che cioè era intesa a colpire la reputazione di un solo soggetto, ha forse un più stretto collegamento con la nostra contemporaneità. Nonostante fosse aggravato da un grave errore giudiziario, infatti, le accuse di colpevolezza di Dreyfus sfruttavano informazioni false e un antisemitismo latente, oltre che la necessità di un capro espiatorio per sedare il malcontento della popolazione sulla guerra, con successiva polarizzazione di organi di stampa e opinione pubblica. Di base, quello che le storie false che vediamo sui social provano a fare ogni giorno.

Parlando di organi di Stati sovrani dediti alla manipolazione delle informazioni, comunque, la Russia ha la tradizione più antica e consolidata. Già alla fine dell’Ottocento l’Ochrana, la polizia segreta dello zar, era dedita alla diffusione di informazioni false. Ad esempio, si deve all’Ochrana la diffusione dei cosiddetti “Protocolli dei Savi di Sion”:  un presunto piano per la conquista del mondo, attribuito al primo Congresso sionista di Basilea del 1897, ma in realtà creato ad arte per diffondere antisemitismo nell’impero zarista e utilizzato per additare la Rivoluzione bolscevica come un complotto degli ebrei. Negli anni Ottanta il Kgb, il servizio segreto dell’Urss, nell’ambito della Guerra fredda, portò avanti una campagna cospirazionista che incolpava gli Stati Uniti per l’epidemia di Aids, accusandoli di aver creato artificialmente il virus dell’HIV come arma biochimica. Le notizie false che il Cremlino diffonde su social e canali di disinformazione quotidianamente, anche con bot e profili falsi, sono solo l’ultima declinazione di una strategia ormai secolare. Non è un caso che il termine “disinformazione” stesso, che ha preso piede nel Novecento,  derivi proprio dal russo “dezinformatzija”.

Anche in Italia

Ci sono poi casi di disinformazione provenienti dall’interno di istituzioni statali che ci riguardano più da vicino. Circa a metà anni Sessanta, durante la cosiddetta Prima Repubblica, dagli uffici del ministero dell’Interno partì una campagna tesa a screditare il Partito comunista italiano (Pci) agli occhi dei cittadini, poi ribattezzata Operazione dei manifesti cinesi. In diverse città italiane, tra cui Roma, Milano, Venezia, Padova, vennero affissi illegalmente dei poster che inneggiavano a Stalin, autoritario leader sovietico, oppure criticavano la linea filo-sovietica del partito, promuovendo l’alternativa impostazione filo-cinese, da cui il nome. I finti manifesti venivano attribuiti a estremisti di sinistra o piccole formazioni marxiste-leniniste, con l’obiettivo di creare allarme nell’opinione pubblica e spaccature nella sinistra, dando l’idea di divisioni ideologiche sostanziali nel campo comunista.



In realtà l’intera campagna, durata per tutta la seconda metà degli anni Sessanta, fu ideata e architettata dall’Ufficio affari riservati (Uar), un ufficio di pubblica sicurezza del Ministero dell’interno. L’operazione fu coordinata da Mario Tedeschi, politico fascista e direttore del periodico Il Borghese, condannato tra le altre cose come mandante della strage di Bologna, ed eseguita materialmente da alcune formazioni terroristiche neofasciste, tra cui Avanguardia Nazionale (AN). Stefano Delle Chiaie, fondatore di AN, parlò dei «manifesti cinesi» in un’audizione davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla lotta al terrorismo della Camera dei deputati, il 9 aprile 1987. «C’è la guerra psicologica», aggiunse in quell’occasione Delle Chiaie, «c’è la conquista delle menti o la conquista dell’uomo e non del territorio; sono elementi della guerra rivoluzionaria». Le finalità erano coerenti con quelle della più ampia Operazione Chaos ideata nell’ambito della Guerra fredda dalla CIA, l’agenzia di intelligence statunitense, che prevedeva l’infiltrazione di agenti estremisti nelle formazioni comuniste per radicalizzare le posizioni di questi gruppi politici e minare la loro credibilità per un elettorato moderato. Per alcuni storici, i manifesti cinesi si possono considerare l’inizio della strategia della tensione in Italia. E proprio gli atti terroristici di quel periodo, basti pensare alla strage di piazza Fontana o quella alla stazione di Bologna, a ben vedere sono stati caratterizzati da depistaggi, inquinamento di prove e sviamento delle indagini, nel tentativo di coprire la verità, diffusi anche a mezzo stampa con la complicità di giornalisti compiacenti.

È interessante notare come una campagna di disinformazione molto più recente, comunque, ha utilizzato la stessa tecnica adottata nel caso dei Manifesti cinesi per veicolare informazioni ingannevoli. Durante la campagna elettorale per le elezioni catalane del 2024, all’ingresso di diverse città della regione, sono comparsi alcuni cartelloni che, posti a mo’ di cartelli stradali, dichiaravano la presunta appartenenza delle località a un fantomatico «Emirato Islamico di Catalogna». In verità, si trattava di cartelli elettorali del Frente Obrero, un locale partito anti-immigrazione, che così intendeva aizzare le folle contro i migranti, suggerendo un loro presunto tentativo di prendere il potere. Di simile quindi c’erano i manifesti, di diverso invece c’era Internet. Diffuse sui social network da i membri del partito e rilanciati da utenti ignari, le foto dei finti cartelli stradali hanno generato un’ondata di indignazione e odio contro i migranti su varie piattaforme. Come già detto, più i mezzi tecnologici sono avanzati, più le strategie comunicative aumentano di complessità.

Progressi e rivoluzioni 

La storia dell’informazione è intimamente connessa all’evoluzione della tecnica. L’invenzione della stampa a caratteri mobili da parte di Johannes Gutenberg, fra il 1453 e il 1455, fu il primo momento in cui la circolazione della cultura e delle informazioni subì un’importante democratizzazione. I libri fino ad allora erano copiati a mano dagli amanuensi, il che rendeva molto limitata ed elitaria la diffusione di testi scritti: ricopiare un manoscritto era infatti un processo lungo, costoso e in pochi potevano permettersi di commissionare o acquistare un libro prodotto in questa maniera. La stampa, relativamente più economica, ha invece aumentato di molto la circolazione dei libri, permettendo anche alle fasce meno abbienti di accedere a cultura e informazioni, nei fatti allargando il numero di persone che un singolo testo poteva raggiungere. 

Così hanno poi fatto radio, tv e infine internet, ognuno portando piccole rivoluzioni cui i mezzi di informazione hanno dovuto adeguarsi, man mano allargando le platee di fruitori. Per le stesse ragioni, però, questo ha effetto anche sulla diffusione di disinformazione. Nuovi mezzi comportano nuove possibilità per propagandare o portare avanti campagne tese a manipolare l’opinione pubblica con la diffusione di notizie false. Non è un caso che il potere tenti continuamente di controllare il flusso delle informazioni, che nei regimi dittatoriali diventa controllo degli stessi mezzi di stampa. Ma non è solo il potere a sfruttare i mezzi di comunicazione per propagandare, anzi. Lo sfruttamento dei canali di comunicazione è cruciale per promuovere idee o ideologie, anche quando queste si dichiarano «contro il potere» o l’ordine costituito. 

Nel libro “Cinquecento anni di rabbia”, lo storico Francesco Filippi sostiene che sia l’appropriazione dei mezzi di comunicazione da parte di sentimenti diffusi a farli emergere poi come istanze politiche e che c’è un filo che unisce avvenimenti distanti nel tempo anche centinaia di anni: lo sfruttamento dei nuovi mezzi per l’emersione di rivendicazioni sociali. Questo – dice Filippi – è quello che accomuna la rivolta dei contadini tedeschi del Cinquecento (o se vogliamo anche il tentativo di rivoluzione contro Giorgio II che dicevamo prima) e l’assalto a Capitol Hill, sede del congresso statunitense, dopo che il presidente uscente Donald Trump rifiutò di riconoscere la sconfitta elettorale. Solo nei primi due casi si sfruttò il nuovo potere della stampa a caratteri mobili, nell’ultimo caso quello dei social media. 

Internet è infatti l’ultimo passaggio di questo percorso, l’ultima grande rivoluzione nella comunicazione. La rete e i social hanno permesso a chiunque l’accesso a basso costo a mezzi di comunicazione di massa (senza più la necessità di possedere testate o stazioni tv o radio per comunicare con più persone) e la circolazione delle informazioni in tempo reale. Alcuni credevano che questo ulteriore processo di democratizzazione della comunicazione avrebbe portato alla maturazione di maggiore partecipazione politica e migliorato le forme di democrazia. In realtà, sembra sia avvenuto un po’ il contrario. I pochi e ricchissimi proprietari di queste piattaforme hanno un potere considerevole nel controllare il flusso di informazioni e favorire questo o quell’attore politico.


Post-verità

Come vi raccontiamo ogni giorno su Facta, la diffusione di teorie del complotto e notizie false o infondate oggi avviene in maniera prevalente sui social. Con Internet, le possibilità di propagandare sono aumentate in maniera esponenziale ed è venuto meno il filtro del controllo editoriale. Non che prima giornali e tv siano stati sempre ligi, ma ora chiunque può pubblicare qualsiasi cosa sui social network – quindi anche falsità – senza nessuna verifica prima della pubblicazione e senza troppe conseguenze dopo. Questo ha portato a quello che gli studiosi hanno chiamatodisordine informativo” o “caos delle informazione”, con le persone che vengono non solo bombardate da un volume di informazioni quotidiane senza precedenti, ma con l’aggravante che queste informazioni sono spesso discordanti o addirittura false.

Anche per questo, l’epoca in cui viviamo è stata definita della post-verità, ovvero un tempo in cui «le informazioni fattuali sono meno importanti nell’influenzare l’opinione pubblica rispetto ad appelli emotivi e credenze personali», per usare la definizione data dall’Oxford Dictionary, che nel 2016 la scelse come parola dell’anno dopo le campagne elettorali per la Brexit e le presidenziali americane poi vinte da Trump. Diversi studi sostengono infatti che la disinformazione e le notizie false abbiano avuto un ruolo importante nella vittoria di Trump. 

Come si scoprì solo nel 2018, poi, i dati personali di 87 milioni di utenti su Facebook vennero usati per profilare gli elettori e proporre argomenti ad hoc per la propaganda politica. È lo scandalo che ha coinvolto Facebook stessa e Cambridge Analytica, una società di consulenza britannica, che utilizzò questi dati per creare profili dettagliati degli utenti, impiegandoli poi per sviluppare campagne pubblicitarie e di propaganda mirate sulle loro preferenze per accaparrarsi i loro voti e quindi influenzare le elezioni, incluse quelle del referendum sulla Brexit e le presidenziali statunitensi del 2016. Nella corsa per le più recenti presidenziali americane del 2024, invece, Elon Musk, proprietario della piattaforma X (ex Twitter), oltre che uomo più ricco del mondo, è stato una delle figure centrali della campagna elettorale che ha portato alla rielezione di Trump alla Casa Bianca. Secondo studi accademici e inchieste giornalistiche, Musk ha manipolato l’algoritmo di X in modo da dare più visibilità a Trump, sé stesso e agli altri leader repubblicani

Lo stesso Trump usa (o abusa, visto che lo ha usato diverse migliaia di volte nei suoi discorsi pubblici) il termine fake news – che si vanta addirittura di avere inventato, sebbene alcuni studiosi abbiano ritrovato il concetto già in alcuni documenti della Francia rivoluzionaria – per definire le informazioni che reputa per sé sconvenienti come falsità. Il confine tra il vero e il falso è sempre più labile, il che crea margine per influenzare la percezione dei cittadini e, possibilmente, il risultato delle competizioni elettorali. Ed è esattamente questo il motivo per cui si parla tanto di disinformazione da quando abbiamo i social network.

Oggi sui social ci sono diversi attori che utilizzano gli algoritmi per diffondere false informazioni. Come specificato in un report dello European Digital media Observatory (Edmo), una comunità di fact-checker e ricercatori indipendenti di cui anche Facta e Pagella Politica fanno parte, durante tutte le campagne elettorali per le varie elezioni nazionali del 2023 nei Paesi del Consiglio d’Europa sono circolate informazioni infondate che suggerivano che il voto fosse truccato o inutile. E questo è avvenuto anche nel caso delle elezioni europee di giugno 2024, con anche storie false che incoraggiavano i cittadini ad astenersi. 

Le elezioni nei Paesi democratici vengono prese di mira ormai in maniera sistematica da potenze straniere ostili, tanto che in vista delle presidenziali di novembre 2024 le autorità statunitensi hanno annunciato piani per contrastare le campagne di disinformazione, portate avanti principalmente da Russia, Cina e Iran, con il fine di inquinare il dibattito. Per condurre queste operazioni di propaganda, che si fanno sempre più sofisticate, si finanziano siti che diffondono notizie infondate o disinformatori seriali, vengono utilizzate spie e anche influencer o altri personaggi noti in certi ambienti o bolle sui social. Così tecniche moderne e tattiche consolidate si mescolano. Lo sfruttamento di personaggi famosi o in qualche modo illustri per propagandare, d’altronde, è stata teorizzata quasi un secolo fa, per la pubblicità e la propaganda a fini commerciali. 

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