L’11 gennaio il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio ha pubblicato un editoriale intitolato “Fuck Checking”. Insieme a molte considerazioni legittime e anche condivisibili, tuttavia, Travaglio descrive il programma di fact-checking sulle piattaforme Meta con gravi travisamenti ed esagerazioni. Questi fanno sì che al pubblico non siano fornite informazioni corrette su ciò in cui consiste il lavoro nostro e di molti colleghi da tutto il mondo all’interno del Third Party Fact-checking Program (3PFC), attivo in Italia dall’inizio del 2018 e di cui Facta è uno dei due partner italiani (per maggiori informazioni è disponibile qui una descrizione dettagliata).
In particolare, Travaglio scrive: «Nel mondo dorato del fact-checking degli amici di Zuckerberg, è vietato chiamare col suo nome lo sterminio israeliano di palestinesi a Gaza». Questo passaggio del direttore del Fatto – già coautore nel 2006 de Le mille balle blu – è gravemente inesatto. Idee e opinioni sono escluse in modo esplicito dal tipo di contenuti di cui si occupa la collaborazione con i fact-checker, secondo le linee guida fornite dalla stessa Meta e pubblicamente disponibili. Così come non ha alcun fondamento l’accusa di esserci occupati delle scelte linguistiche per descrivere la guerra a Gaza. Il riferimento di Travaglio è forse al cosiddetto “shadow ban”, di cui ci siamo occupati qui, e che nulla ha a che fare con il nostro lavoro.
Invitiamo il direttore del Fatto, che nel 2020 ha pubblicato Bugiardi senza gloria, a passare in rassegna gli articoli di fact-checking prodotti all’interno della partnership, tutti pubblicamente disponibili al link https://www.facta.news/antibufale, e di trovarne anche solo uno che si occupi di censurare l’espressione di opinioni, che sono sempre legittime, e non piuttosto della verifica di foto false, informazioni inventate, video manipolati. Le verifiche sono fatte sulla base di fonti che vengono sempre linkate, puntando sempre alla massima trasparenza.
Anche gli altri esempi dei presunti comportamenti degli appartenenti al 3PFC elencati da Travaglio, autore nel 2008 del libro La scomparsa dei fatti, non hanno per lo più a che fare con il programma o non rendono giustizia al lavoro di una comunità globale di fact-checker di cui facciamo parte da quasi dieci anni. Nel caso degli «scandali di famiglia di Biden», ad esempio, la decisione fondamentale di intervenire sui contenuti che riguardavano il laptop del figlio di Biden a fine 2020 venne compiuta in autonomia dai vertici di Meta, in seguito a scambi con l’FBI.
Allo stesso modo sono senza riscontri sono le accuse mosse al programma di “costringere” gli utenti a dire alcunché, sia esso la situazione militare dell’Ucraina o il suo grado di democrazia. Il 3PFC peraltro non prevede la rimozione dei contenuti, ma – per quanto ci riguarda – l’apposizione di etichette che rimandano agli articoli di fact-checking. Lasciando poi agli utenti la libertà di decidere a che cosa credere e la possibilità di condividere il contenuto.
È certo possibile che tra i fact-checker aderenti al programma (tutti certificati dall’International Fact-checking Network, IFCN), ci sia qualcuno che abbia commesso errori o applicato male le linee guida. Le decisioni sono appellabili e la stessa Meta ha dichiarato che quelle dei fact-checker vengono ribaltate, in caso di “ricorso”, solo nel 3-4 per cento dei casi. Mentre per altre categorie come la violenza o il bullismo, su cui i fact-checker non sono coinvolti, le percentuali sono sempre superiori al 60 per cento. Le cosiddette “politiche di moderazione” su contenuti volgari, violenti, razzisti e così via non sono gestite da noi e non c’entrano nulla con il 3PFC.
Non possiamo che concordare con l’opinione che, secondo il direttore Travaglio, «I fatti esistono e chi li racconta e li verifica col fact-checking è un benemerito». Questa è sempre stata la nostra missione e questo proviamo a fare quotidianamente da anni.