Logo
Questo articolo ha più di 44 mesi

Seaspiracy: che cosa non torna nel documentario Netflix contro la pesca

Seaspiracy: esiste la pesca sostenibile?

Andiamo a vedere quali sono le principali polemiche causate dal prodotto Netflix e ad analizzare le critiche rivolte al documentario.

15 aprile 2021
Condividi

Il 24 marzo 2021 Netflix ha rilasciato ufficialmente Seaspiracy: esiste la pesca sostenibile?, un documentario di 90 minuti diretto dal regista britannico Ali Tabrizi e prodotto da Kip Andersen, noto al grande pubblico per titoli come Cowspiracy e What the Health: docufilm critici verso il consumo umano di carne, pesce, uova e latticini e sull’impatto che questo tipo di dieta potrebbe avere sul nostro pianeta.

Seaspiracy si presenta come un viaggio di formazione del regista, che in prima persona – e insieme alla collega e compagna Lucy Manning – va alla ricerca di una modalità di pesca sostenibile, dopo aver documentato nei primi minuti di film un’esperienza che si pone all’estremo opposto della sostenibilità: la caccia ai delfini che ogni anno si svolge nella città giapponese di Taiji.

Nel corso del documentario, Tabrizi acquisisce gli argomenti e i dati grazie a viaggi, interviste e ricerche su Google per formare una sua opinione sul tema della pesca sostenibile, che si può sintetizzare con la conclusione che arriva nella parte finale del film: ovvero che un simile tipo di pesca non esiste, perché i pesci e le creature marine provano dolore in ogni caso (dal minuto 1:19:41).

La lenta presa di coscienza e il conseguente messaggio antispecista sono in realtà un espediente narrativo, dal momento che nel 2018 Tabrizi aveva firmato un lavoro intitolato Vegan e che si era già in passato presentato come un attivista vegano. Fin dal suo esordio sulla piattaforma di streaming, Seaspiracy ha attirato numerose critiche da parte dei media e delle stesse organizzazioni ambientaliste, incentrate per lo più su accuse di impostazione a senso unico della narrazione e sulla rappresentazione distorta dei fatti.

Nelle ultime settimane si sono succedute smentite e precisazioni delle associazioni citate o coinvolte nel documentario, che hanno denunciato tecniche manipolatorie al fine di fare emergere la tesi dell’autore.

Ma andiamo a vedere quali sono le principali polemiche causate dal prodotto Netflix e ad analizzare le critiche rivolte al documentario.

Le organizzazioni ambientaliste

Tra i principali bersagli del documentario diretto da Tabrizi ci sono le organizzazioni ambientaliste, che nel corso della narrazione vengono alternativamente presentate come complici o impreparate di fronte ai presunti soprusi dell’industria ittica.

La sigla che compare più volte nel documentario è quella della Msc, acronimo di Marine Stewardship Council (Consiglio di supervisione marino), un’organizzazione no-profit che – come si legge sul sito ufficiale – si occupa di «riconoscere e premiare gli sforzi per proteggere gli oceani e salvaguardare la disponibilità di prodotti ittici per il futuro». La principale attività di Msc consiste nel suo programma di certificazione ed etichettatura, con l’iconico bollino blu rilasciato alle aziende che si impegnano per una pesca sostenibile.

Il logo certificato da Msc

Dal minuto 00:49:10 lo scienziato marino Callum Roberts sostiene che Msc certifica attività di pesca «che producono livelli sorprendenti di catture collaterali» e che queste «vengono ignorate perché quel livello di uccisione è considerato “sostenibile” di per sé, ma questo non è quello che cerca il consumatore». Il consumatore «vuole la garanzia che non vengano uccisi mammiferi marini o uccelli marini per mettere quel pesce nel piatto. L’etichetta sulle confezioni in alcuni casi non vale niente», conclude Roberts.

In un comunicato di risposta pubblicato lo scorso 26 marzo Msc ha precisato che «le attività di pesca certificate secondo lo standard Msc devono fornire la prova che stanno attivamente riducendo al minimo le catture collaterali» e tale dinamica sarebbe testimoniata da una delle attività di pesca sostenibile mostrate nel documentario stesso (quella delle Isole Fær Øer, dal minuto 1:31:37), la cui certificazione è stata sospesa «a causa di problemi di cattura collaterale» per poi essere «riammessa, ma solo quando i problemi sono stati risolti». Le “catture collaterali” (in inglese bycatch) sono le vittime accidentali della pesca, ovvero tutti quegli uccelli, delfini e tartarughe che ogni finiscono nelle reti dei pescatori per errore.

Secondo Tabrizi, Msc non avrebbe alcun interesse nel proteggere l’ambiente marino e farebbe anzi il gioco dell’industria ittica, perché «uno dei fondatori dell’Msc era la multinazionale Unilever, uno dei maggiori produttori di pesce» (minuto 00:51:07). In risposta a tale affermazione, il già citato comunicato di Msc ha specificato di essere «un’organizzazione no-profit indipendente fondata da Wwf e Unilever più di 20 anni fa» e ha aggiunto di non essere un’impresa commerciale e di non ricevere «alcun reddito dall’industria ittica o dalla certificazione di terze parti dell’industria ittica».

La risposta non sembra tuttavia chiarire esaustivamente i dubbi esposti da Tabrizi, innanzitutto perché non smentisce un possibile conflitto d’interessi con Unilever, che produce un’ampia varietà di prodotti marini. Inoltre, Msc riceve di fatto gli introiti derivanti dalla commercializzazione del logo di pesca certificata, come ammette nello stesso comunicato, che viene acquistato dai produttori finali di pesce confezionato, lasciando aperta ogni possibile speculazione sulla reale indipendenza dell’operazione.

Insieme ad Msc, nel mirino di Seaspiracy è finito anche l’Earth Island Institute, organizzazione no-profit che si occupa di proteggere i mammiferi marini attraverso un altro sistema di etichettatura, il “Dolphin Safe”, che compare sulle confezioni di tonno di tutto il mondo. Nel documentario, Tabrizi intervista Mark J. Palmer, direttore associato dell’organizzazione (minuto 00:26:59) che sembra contraddirsi più volte arrivando a sostenere che l’Earth Island Institute non può effettivamente controllare se il tonno sia stato pescato con metodi sostenibili o meno.

Il 31 marzo 2021 lo stesso Palmer ha dichiarato al quotidiano britannico The Guardian che «il film ha estrapolato la mia affermazione dal contesto per suggerire che non vi è alcun controllo e non sappiamo se i delfini vengono uccisi o meno. Questo non è vero».

Il documentario sembra inoltre suggerire che il bollino “Dolphin Safe” sia parte di un complotto organizzato di comune accordo con l’industria ittica. Accusa rispedita al mittente dall’Earth Island Institute, che in un comunicato ha chiarito che «il programma Dolphin Safe è responsabile del più grande calo di mortalità dei delfini per mano di pescherecci di tonni nella storia. I livelli di uccisione dei delfini sono stati ridotti di oltre il 95 per cento, impedendo il massacro indiscriminato di oltre 100 mila delfini ogni anno».

Il logo Dolphin Safe, apposto sulle scatolette di tonno in tutto il mondo

In questo caso, l’affermazione dell’organizzazione non trova alcun riscontro esterno e fa probabilmente confusione con un altro dato spesso citato da Earth Island Institute, quello secondo cui «il 95 per cento delle aziende produttrici di tonno nel mondo sono ora impegnate in pratiche di pesca sicure per i delfini». Ciò significa che il 95 per cento delle aziende produttrici di tonno partecipa attivamente al progetto “Dolphin Safe” – le adesioni sono verificabili sul sito ufficiale dell’iniziativa – ma non che le uccisioni di delfini siano effettivamente diminuite in quella percentuale.

Un’altra organizzazione presentata nel documentario è la Plastic Pollution Coalition (Pcp), un cartello di sigle che promuove diverse iniziative per liberare l’ambiente dall’inquinamento di plastica. In un comunicato pubblicato dopo la distribuzione del documentario, Ppc ha dichiarato: «Sebbene i realizzatori avessero detto di essere interessati al lavoro della Plastic Pollution Coalition, quando abbiamo risposto alle domande hanno maltrattato il nostro staff e attuato una selezione dei nostri commenti per supportare la loro narrazione».

L’attenzione del documentario si sposta infine sul mondo delle organizzazioni ambientaliste in generale, che secondo Tabrizi nasconderebbero il reale problema dell’inquinamento degli oceani – ovvero la presenza di reti da pesca, che rappresenterebbero il 46 per cento della plastica totale in mare (tra poco verificheremo l’attendibilità di questo dato) – dietro al “falso nemico” delle cannucce di plastica.

Al minuto 00:30:10 Tabrizi denuncia: «Quando ho visitato i siti delle principali organizzazioni che trattano l’inquinamento da plastica ho trovato pagine e pagine di incoraggiamenti a smettere di usare ogni cosa, dalle bustine di tè alle gomme da masticare, ma da nessuna parte si diceva che cosa fare con le attrezzature da pesca, se mai venivano menzionate». Da una veloce ricerca su Google, questa accusa appare infondata: nel 2019 Greenpeace – una delle organizzazione che nel montaggio video vengono indicate tra le responsabili dell’occultamento – ha dedicato al tema un dettagliato report. Stessa cosa hanno fatto Wwf e Fao.

I dati scientifici

Seaspiracy contiene numerosi dati scientifici a supporto della sua narrazione, spesso citati senza alcun riferimento alla fonte. Al minuto 00:21:41, ad esempio, Tabrizi spiega che «secondo le stime, il 40 per cento del pescato viene rigettato in mare come cattura collaterale».

Secondo un documento ufficiale della Fao (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) tra il 2010 e il 2014 il pescato ributtato in mare come pesca accessoria è stato annualmente in media del 9,4 per cento, corrispondente a circa 10,5 milioni di tonnellate. Un dato molto simile è riportato anche in uno studio guidato da Dirk Zeller, professore di conservazione marina all’università della Western Australia, che quantifica le vittime collaterali della pesca in «poco meno del 10 per cento» del totale, in calo rispetto a un picco di quasi il 20 per cento raggiunto nel 1989.

Al minuto 00:31:14, Tabrizi spiega poi che «le ultime ricerche dimostrano che il 46 per cento della Grande Chiazza del Pacifico è costituita da reti da pesca». La Grande Chiazza del Pacifico (o Pacific Trash Vortex) è un enorme accumulo di spazzatura galleggiante – composto perlopiù da plastica – che viene spesso utilizzato come metro di misura per comprendere quale sia la reale quantità di plastica negli oceani.

Il dato delle reti da pesca viene utilizzato da Tabrizi per smentire l’esponente di Plastic Pollution Coalition che al minuto 00:30:54 sosteneva che la maggior parte della Grande Chiazza fosse composta da «microplastiche». In realtà l’affermazione dell’esponente della Ong è corretta: come spiegato dal National Geographic, la chiazza «è quasi interamente costituita da minuscoli pezzetti di plastica, chiamati microplastiche, che non possono essere sempre viste ad occhio nudo».

Tabrizi, nel riportare la percentuale del 46 per cento, fa in realtà riferimento a una ricerca pubblicata nel 2018 su Nature che contiene in effetti il dato riguardante le reti da pesca, ma sottolinea come quel numero sia riferito alla massa totale delle plastiche nella Grande Chiazza, mentre il 94 per cento dei pezzi di plastica nell’area è effettivamente composto da microplastiche

.

Al minuto 00:38:45 la voce narrante di Tabrizi si lancia in una previsione sulla possibile estinzione della popolazione ittica, mantenendo gli attuali livelli di pescato: «uno dei fatti più scioccanti arriva da uno dei maggiori esperti di pesca al mondo, secondo cui agli attuali ritmi di pesca, gli oceani resteranno pressoché vuoti entro il 2048». Il documentario non precisa da dove arrivi tale previsione o chi sia l’esperto citato.

Abbiamo però scoperto che il dato risale al 2006 ed è attribuibile all’ecologista marino Boris Worm, professore di biologia della conservazione marina alla Dalhousie University – effettivamente uno dei maggiori esperti di pesca al mondo – ma è stato smentito dallo stesso Worm l’anno successivo. Approfondendo la sua ricerca, Worm ha infatti scoperto che gli «oceani non sono una causa persa» e che nel 2048 potrà dare «una festa a base di pesce». Un’analisi condotta dall’università della California – e sposata da Boris Worm – ha comunque evidenziato un dato allarmante, ovvero che nel 2050 l’88 per cento delle riserve ittiche sarà «sovrasfruttato», cioè pescato in misura superiore alla sua capacità di riprodursi.

Non tutti i dati contenuti nel documentario sono comunque privi di fondamento. Al minuto 00:21:11 una delle persone intervistate  – Paul de Gelder, ex sub della marina australiana – spiega che «uccidiamo tra 11 mila e i 30 mila squali ogni ora». Il dato è corretto ed è contenuto in questa ricerca condotta dal già citato Boris Worm. Corretti sono anche i dati relativi agli oltre 4 milioni e mezzo di pescherecci che solcano gli oceani (minuto 00:23:24, dato contenuto in un rapporto Fao) e alla quantità di pesce importato dagli Stati Uniti e pescato illegalmente (un terzo, secondo il documentario al minuto  00:54:06, dato contenuto ancora una volta nel lavoro di Worm).

La sostenibilità

Uno dei problemi più grossi dell’opera di Tabrizi riguarda il suo rapporto con il concetto di sostenibilità, a partire proprio dalla sua definizione. Al minuto 00:48:56, ad esempio, la voce narrante sostiene che «la pesca sostenibile non funziona e non si può nemmeno definire».

Il concetto di “sostenibilità” è stato in realtà definito più volte: ad esempio nel 1987 dalle Nazioni Unite, che servendosi di un’apposita commissione ha scelto di associare al termine la definizione «soddisfare le esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di poter soddisfare le proprie esigenze». Nel caso della pesca ciò si traduce nel rispetto dell’habitat marino e nel preservare le risorse ittiche per il futuro e per tutti coloro i quali oggi dipendono dalla pesca come principale forma di sussistenza.

Quanto all’efficacia della pesca sostenibile, la risposta arriva da Msc, che nel suo comunicato sottolinea: «La pesca sostenibile ha già salvato numerose specie considerate sull’orlo del baratro: ciò è accaduto con il nototenide della Patagonia (pesce commercializzato con il nome di branzino cileno, spigola cilena o dentice della Patagonia, ndr) negli oceani meridionali o con il recupero del nasello della Namibia, dopo anni di pesca eccessiva da parte delle flotte straniere, o con l’aumento di alcune delle principali specie di tonno a livello globale».

Quello della sostenibilità è un concetto centrale in tutti i 90 minuti del prodotto Netflix, ma in alcuni passaggi il documentario sembra porre una falsa alternativa tra i metodi per combattere l’inquinamento marino. Al minuto 00:30:26, ad esempio, Tabrizi sostiene di essere rimasto sconcertato nello scoprire «che le cannucce di plastica rappresentano solo lo 0,03 per cento della plastica immessa negli oceani», nonostante le organizzazioni ambientaliste spingano molto più su questo punto che sulle reti da pesca.

Il dato è il risultato di due studi combinati dagli autori del documentario: il primo è stato condotto nel 2015 dalla professoressa Jenna Jambeck e presenta una stima della quantità di plastica presente negli oceani, mentre il secondo è opera di un’agenzia governativa australiana e presenta una stima della quantità di cannucce in mare. Per quanto sia rischioso basarsi sulla combinazione di due stime, è senz’altro vero che le reti da pesca negli oceani siano più delle cannucce: lo pensano gli autori degli studi citati e anche le organizzazioni ambientaliste, che come abbiamo visto hanno prodotto diversi report sul tema.

In questo senso, la narrazione messa in campo da Tabrizi rappresenta un classico “argomento fantoccio”, dal momento che nessuno ha mai realmente sminuito il problema rappresentato dalle reti da pesca. Quando nel 2018 l’Unione europea ha sancito lo stop alle plastiche monouso – non solo cannucce, dunque, ma anche stoviglie di plastica, cotton fioc e aste per palloncini – le associazioni ambientaliste hanno fatto sentire la propria voce, lodando l’iniziativa ma parlando di «necessità di avere più coraggio e ambizione». Anche per questo motivo, a maggio 2018 l’Unione europea ha promesso di implementare nuovi strumenti contro l’inquinamento da attrezzi da pesca, per «completare il quadro normativo vigente introducendo regimi di responsabilità del produttore per gli attrezzi da pesca contenenti plastica».

Per tutto il documentario, Tabrizi sposa la causa di una sostenibilità fortemente sbilanciata verso la tutela dell’ambiente marino e della sua fauna, a discapito delle esigenze dell’essere umano, centrali nella definizione di “sostenibilità” delle Nazioni Unite. Al minuto 1:22:36, ad esempio, il biologo Jonathan Balcombe sostiene che «quello che mancherà se smettessimo di mangiare pesce è una gran quantità di metalli pesanti tossici, come il mercurio, e diminuirebbe l’assunzione di diossine e Pcb e altri persistenti inquinanti organici».

Questo è vero, ma la spiegazione evita di problematizzare le conseguenze di una mancata assunzione di pesce per gli esseri umani. Innanzitutto, oltre ai metalli tossici e agli inquinanti organici, il pesce contiene numerosi benefici nutrizionali, come proteine nobili, amminoacidi essenziali e omega 3. Tutti questi benefici potrebbero essere mantenuti anche seguendo una dieta vegana, come suggerisce il documentario dal minuto 1:23:56 (l’omega 3 è ad esempio contenuto nelle alghe marine, come correttamente spiegato dal dottor Michael Keppler) ma ciò comporterebbe altri effetti collaterali.

Ad esempio, come ha ricordato a ottobre 2020 la Harvard Political Review – rivista trimestrale dell’università di Harvard, negli Stati Uniti – è vero che una dieta priva di carne e pesce ridurrebbe notevolmente l’impatto ambientale, ma la catena di produzione vegetariana non è priva di conseguenze. Solo negli Stati Uniti il 75 per cento dei lavoratori agricoli è privo di documenti e viene pagato in media meno di 14 dollari l’ora. Caporalato e sfruttamento in agricoltura sono un problema anche in Italia, che coinvolge circa 180 mila lavoratori vulnerabili.

In conclusione

Il documentario “Seaspiracy: esiste la pesca sostenibile?” diffuso da Netflix e girato dal regista britannico Ali Tabrizi evidenzia un tema cruciale, quello dell’inquinamento degli oceani. Davanti ad un problema urgente e reale, le risposte sono però in parte apparse come il frutto di una tesi preimpostata e in alcuni casi apertamente manipolatorie.

Nei 90 minuti dell’opera, l’autore scredita più volte il lavoro delle organizzazioni ambientaliste, che vengono dipinte come complici dell’industria ittica nel nascondere l’inquinamento da pesca. In realtà molte organizzazioni denunciano attivamente il problema da anni e si battono per modificare la legislazione vigente. Alcune delle organizzazioni interpellate hanno inoltre denunciato un montaggio manipolatorio delle interviste. Insieme alle testimonianze, hanno destato molti dubbi anche i dati presentati, spesso citati senza fonte, in alcuni casi errati o superati dalla ricerca scientifica.

L’intera impalcatura del documentario è fortemente critica nei confronti della “sostenibilità”, che al termine del documentario viene presentata come impossibile da raggiungere. È una conclusione, questa, che viene presentata nel film come il frutto di un lungo viaggio di formazione, ma che sembra in realtà la tesi precostituita alla base dell’opera.

LEGGI ANCHE
Potrebbero interessarti
Segnala su Whatsapp