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I test per misurare l’intelligenza sono pseudoscienza?

La ricerca nel campo della psicologia ha dimostrato l’utilità del QI, ma ci mette in guardia dai suoi possibili abusi

4 febbraio 2025
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Ci sono temi capaci di infiammare per decenni diatribe, che sono al contempo scientifiche, filosofiche, morali, ideologiche. Pochi sono stati capaci di farlo più dell’intelligenza umana e dei metodi per misurarla.

I test per il quoziente intellettivo (QI), impiegati per misurare diverse abilità cognitive, hanno ancora oggi fautori e detrattori. C’è perfino chi li etichetta come miti o come pseudoscienza (qualcosa, cioè, che sembra scienza, ma non lo è). Anche se queste discussioni non sono terminate, è possibile almeno cercare di capire se tra gli esperti ci sia un consenso, quantomeno sul fatto se si tratti di scienza rispettabile o di spazzatura.

Ci sono molte cose che non sappiamo sulla nostra intelligenza, come del resto, più in generale, sulla nostra coscienza. Ma, stando a quanto afferma la scienza, è vero che possiamo misurarla?

Definire ciò che si misura

Sebbene ancora in uso, il termine “quoziente” è in realtà oggi superato. Una volta il QI veniva calcolato dividendo quella che viene definita età mentale per l’età cronologica e moltiplicando il risultato per 100. Questo metodo di calcolo del QI è stato sostituito da quello della distanza del punteggio individuale da una media, fissata attorno a 100. La distribuzione dei punteggi del QI nella popolazione generale segue una distribuzione normale. Il novantacinque percento della popolazione ha infatti un punteggio compreso tra 75 e 130.

Se si vuole misurare un fenomeno, è necessario prima definirlo. È rimasta famosa una frase che lo psicologo americano Edwin G. Boring scrisse nel 1923: «l’intelligenza è ciò che i test testano», una evidente tautologia che viene spesso citata fuori contesto per liquidare come inconsistenti i test del QI, anche se non era questo il senso della riflessione del suo autore. Con una definizione leggermente migliore, l’intelligenza può essere vista come l’abilità di risolvere problemi, di pensare in modo astratto, e comprendere idee complesse. L’intelligenza non si riduce quindi all’apprendimento di nozioni da un libro o a una specifica abilità in qualche disciplina, ma ha a che vedere anche con l’attitudine al ragionamento e alla risoluzione di problemi.

Ci sono diversi tipi di test per misurare le capacità cognitive e differiscono nella forma e nel contenuto. Alcuni valutano la capacità verbale, altri quella non verbale, ma generalmente consistono in compiti che coinvolgono diversi aspetti del ragionamento. Chi legge, se ha provato a svolgere qualche test del QI che si trova online, si sarà imbattuto nelle matrici di Raven, che consistono in gruppi di figure che il test chiede di completare, cercando di individuare la logica alla base delle loro sequenze.

Di certo la psicometria, cioè la disciplina che si occupa di misurare vari aspetti della psicologia umana, è stata al centro di numerose controversie. La disputa non ha riguardato solo il QI, ma l’intero approccio psicometrico all’intelligenza. Chi lo critica non contesta il fatto che i test riescano a dare dei punteggi stabili, quindi affidabili, né il fatto che possano predire alcuni esiti, per esempio le prestazioni scolastiche; ciò che obiettano è che valutare l’intelligenza solo sulla base di un punteggio significhi ignorare molti aspetti rilevanti delle capacità cognitive. 

Nel 1994 la pubblicazione del libro The Bell Curve, i cui autori proponevano discutibili relazioni tra QI e appartenenze etniche, scatenò una serie di dibattiti sul significato e la validità dei test per misurare l’intelligenza e sulla sua stessa natura. Per calmare le acque, l’American Psychological Association (APA) pubblicò nel 1995 una relazione intitolata Intelligence: Knowns and Unknowns («Intelligenza: ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo»). 

Gli autori partivano dalla constatazione che esistono differenze tra le persone, nella capacità di comprendere idee complesse, aggirare ostacoli tramite il pensiero e districarsi tra diverse forme di ragionamento. Nello stesso tempo, anche se queste differenze possono essere rilevanti, non sono mai del tutto coerenti. Le prestazioni intellettuali possono cambiare a seconda del momento, dell’ambito in cui si manifestano e sulla base di diversi criteri. Il concetto di “intelligenza”, osservavano gli esperti, è un tentativo di capire e organizzare questo complesso di fenomeni.

Gli individui, infatti, raramente ottengono risultati ugualmente buoni in tutti le prove comprese in un test di intelligenza. C’è chi ottiene punteggi migliori nei compiti verbali, chi in quelli visuali-spaziali. Tuttavia, i test che misurano diverse abilità tendono a essere correlati positivamente, cioè le persone che ottengono punteggi elevati in uno di questi, hanno una probabilità di essere superiori alla media anche negli altri. Segno che qualcosa, questi test, riescono effettivamente a coglierlo.

C’è, quindi, un generale consenso sul fatto che test psicometrici abbiano la capacità di misurare diversi aspetti dell’intelligenza e delle prestazioni che possiamo attribuirle. Un’altra importante evidenza è che le differenze tra un individuo e l’altro sono abbastanza stabili nel corso della vita, specialmente dall’adolescenza in poi, quando si completa lo sviluppo cognitivo e si svolge buona parte della formazione individuale.

Questo è un aspetto particolarmente critico nel dibattito sull’intelligenza e sull’utilità del QI. All’inizio del XX secolo, lo psicologo francese Alfred Binet ideò i primi test psicometrici proprio per misurare il rendimento scolastico dei bambini. Secondo il rapporto dell’APA, i test riescono a prevedere abbastanza bene il rendimento scolastico, ma questa correlazione copre solo una parte della variabilità che si riscontra tra gli scolari. Il loro rendimento dipende anche da altre caratteristiche, diverse dall’intelligenza, come la costanza nello studio e la determinazione individuale. I test psicometrici possono spiegare anche una parte delle differenze che le persone mostrano nelle prestazioni lavorative, ma anche in questo caso l’intelligenza è solo uno di tanti fattori che rivestono un ruolo altrettanto o più rilevante.

Una delle conclusioni degli psicologi è che l’intelligenza si può concettualizzare in modi diversi. Ma, oltre all’intelligenza linguistica, logico-matematica, visuale-spaziale, c’è chi ne teorizza anche altre, come quella musicale o corporea, sebbene si tratto più di talenti che di vere espressioni dell’intelligenza, per come questa viene definita. In ogni caso, la psicometria, come quella alla base dei test del QI, è un approccio alla valutazione dell’intelligenza ormai piuttosto consolidato. 

Prima si è accennato al fatto che le differenze nei test psicometrici che si misurano tra due individui rimangono abbastanza stabili specialmente dall’adolescenza in poi. L’affermazione implica che due persone differiscano per grado di intelligenza a causa di fattori diversi nel corso della loro vita. Ciò ci conduce a un altro tema, che è uno dei più dibattuti, non solo tra quelli psicologici, ma in generale scientifici e filosofici.

Natura contro cultura

In un articolo pubblicato nel 2010 sulla rivista scientifica Nature, alcuni psicologi dell’Università di Edimburgo scrivevano che «più di 100 anni di ricerca empirica forniscono prove conclusive che «l’intelligenza può essere misurata in modo affidabile» e questo parametro può predire diversi esiti nella vita di un individuo, dal successo negli studi alla longevità. A conferma di quanto scriveva l’APA, quindici anni prima.

L’articolo si intitola “Le neuroscienze delle differenze dell’intelligenza umana”. L’osservazione precedente, infatti, introduce il tema di cui si occupano gli autori: le basi biologiche e genetiche dell’intelligenza. La domanda è di quelle su cui ci si interroga da secoli, cioè se gli esseri umani, a partire dal loro comportamento, siano il frutto della natura o della cultura (concetto che possiamo estendere all’ambiente, cioè a tutto ciò che non sta nei geni). Un intrico di questioni filosofiche, morali, ideologiche avvolge questo tema.

Alla domanda si può rispondere con una risposta abbastanza ovvia, ma vera. Come molte caratteristiche individuali, anche l’intelligenza è il prodotto congiunto di variabili genetiche e ambientali, che peraltro possono comunicare tra loro. Dato un tratto in cui gli individui variano, ci si può chiedere quale frazione di quella variazione sia associata a differenze nei loro patrimonio genetico. Le stime della percentuale di variabilità dell’intelligenza attribuibile a fattori genetici vanno dal 30 all’80 per cento. 

Indipendentemente dalla definizione di intelligenza e dal test utilizzato, scrivono questi psicologi, le immagini cerebrali e gli studi genetici mostrano forti correlazioni con i risultati dei test. Secondo loro, si tratta di un’evidenza della validità delle misurazioni psicometriche.

Come riportano altri esperti, l’influenza della genetica sull’intelligenza aumenta in modo lineare, dal 20 percento nell’infanzia al 60 nell’età adulta e potrebbe aumentare fino all’80 nella vecchiaia. Ciò si spiega con il fatto che, man mano che ci lasciamo alle spalle l’età dello sviluppo e della formazione, condizionata dall’ambiente d’origine e dal contesto familiare, i fattori biologici diventano preponderanti su quelli ambientali nel presiedere alle nostre capacità intellettive.

La riluttanza ad accettare che i test psicometrici, pur con alcuni limiti, possano dirci qualcosa su varie manifestazioni della nostra intelligenza deriva probabilmente dalla paura che di questi si possa abusare per giustificare discriminazioni. Più in profondità, ciò che si teme è il determinismo biologico: l’idea che tutto di noi sia prescritto e preconfezionato nei nostri geni. Ovviamente non è così. Non siamo solo il nostro DNA, così come non siamo solo l’ambiente in cui cresciamo.

Un pregiudizio etnico?

Il rapporto tra intelligenza e appartenenze etniche (alcuni dicono “razziali”, ma è un termine che non è corretto applicare alla specie umana) è stato il più controverso di tutta la discussione sull’intelligenza. Il tema era stato affrontato già nel rapporto degli psicologi americani del 1995, che era stato scritto anche per cercare di mettere ordine in questo genere di polemiche. 

Gli esperti scrivevano che per molto tempo erano state osservate differenze nei punteggi del QI tra diversi gruppi, per esempio negli Stati Uniti, tra gli afroamericani e i bianchi. I risultati dei primi erano in media di 15 punti più bassi, uno scarto che si rifletteva nei rendimenti scolastici. 

Per spiegare queste differenze era stato ipotizzato che vari aspetti del modo in cui i test venivano formulati e somministrati potessero mettere alcuni gruppi in una posizione di svantaggio. Non tutti potevano avere familiarità con l’inglese standard in cui erano scritti. Inoltre, il fatto che i test venissero somministrati quasi sempre da bianchi poteva introdurre una distorsione: gli afro-americani forse non si impegnavano a fondo nell’affrontare test che potevano percepire come espressione di “valori bianchi”. Queste ipotesi erano plausibili, ma secondo gli psicologi dell’APA gli studi svolti fino ad allora non le avevano supportate. La discussione sulle cause delle differenze tra gruppi si trascina tuttora.

C’è però un aspetto della questione da considerare. Come abbiamo detto, l’intelligenza è un complesso di capacità a cui contribuisce sia la genetica che l’ambiente. Il secondo è quello che senz’altro spiega l’aumento del punteggio del QI osservato nel corso del XX secolo in molti paesi. Questo fenomeno è chiamato “effetto Flynn” dal nome dello psicologo che lo ha scoperto. Dato che la genetica umana non può essere cambiata nell’arco di decenni, alla base di questo cambiamento ci devono essere altri fattori. Anche in questo caso sono state avanzate diverse ipotesi: cambiamenti dell’alimentazione, una maggiore durata del periodo scolastico o una maggiore esperienza nel valutare i test dell’intelligenza.

L’effetto Flynn è probabilmente dovuto a un complesso di queste cause, che chiamiamo genericamente “ambientali” per differenziarle da tutto ciò che è genetico. Alcuni di queste potrebbero anche spiegare le differenze di QI osservate tra gruppi etnici. Infatti, negli Stati Uniti si è registrata una sensibile riduzione del divario tra bianchi e afroamericani nei risultati dei test dell’intelligenza, che può essere giustificata dal miglioramento delle condizioni culturali e socioeconomiche di un gruppo che per molto tempo è stato svantaggiato e discriminato.

I test del QI non sembrano soffrire di seri pregiudizi intrinseci e non possono essere definiti “pseudoscienza”, tuttavia hanno dei limiti. Sono dei buoni indicatori delle capacità intellettive all’interno di gruppi di persone che hanno un retroterra omogeneo. In caso contrario, i loro punteggi possono riflettere differenze che non riguardano i geni, né presunte superiorità razziali, ma fattori sociali ed economici.

Anche se tutto ciò è oggetto di un dibattito ancora in corso, la ricerca psicologica ha chiarito quali sono gli usi legittimi dei testi dell’intelligenza. Tuttora, c’è chi continua ad invocare il QI per teorizzare differenze intrinseche dell’intelligenza tra diversi gruppi umani, un ritorno al “razzismo scientifico” che trova sostenitori nell’estrema destra ma che non ha nessuna giustificazione realmente scientifica. 

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