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Non siamo davvero così vicini a riportare in vita i mammut

I topolini lanosi sono un progetto scientifico interessante ma la de-estinzione è un’idea complessa e controversa

13 marzo 2025
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La risurrezione di specie estinte è una chimera che si insegue da tempo e quando se ne parla il pensiero non può che andare ai romanzi e ai film della saga di Jurassic Park e all’immaginario potentissimo che ne è scaturito. Da alcuni anni però la de-estinzione, cioè il contrario dell’estinzione, non è più materia da romanzi techno-thriller, ma un serio oggetto di discussione all’interno della comunità scientifica. Qualcosa che sembra molto più alla nostra portata di quanto lo fosse quando i velociraptor sono diventati popolari icone cinematografiche. 

Se ne è parlato molto nei giorni scorsi, grazie a buffi topolini creati da Colossal Biosciences, azienda biotecnologica con sede a Dallas, in Texas, fondata nel 2021 dall’imprenditore Ben Lamm e dal genetista George Church. Topi che «aprono la strada al ritorno dei mammut», ha titolato ANSA. È il genere di notizia scientifica per cui i media vanno matti, lo studio che fa scalpore, quello che sembra imprimere una svolta a un intero settore.

Quanto mammut c’è in un topo lanoso?

L’elenco di organismi viventi, animali e piante, che si possono definire de-estinti è al momento cortissimo. Da una sottospecie di tartaruga delle Galapagos, che non si vedeva dalla metà del XIX secolo, sono stati rigenerati alcuni individui, simili all’originale, attraverso una selezione artificiale a partire da alcuni ibridi che erano stati scoperti. Nel 2023 un nematode, un microscopico verme, è stato rianimato da una sorta di ibernazione in cui era rimasto per 46mila anni nel suolo ghiacciato siberiano, al tempo in cui era calpestato dai mammut.

Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il riportare in vita animali vertebrati scomparsi da migliaia o milioni di anni, come il mammut lanoso (Mammuthus primigenius), i cui ultimi esemplari sono vissuti 4mila anni fa. Per raggiungere questo obiettivo si potrebbero percorrere almeno un paio di strade. Una è quella della clonazione. Si prende il nucleo di una cellula che contiene il DNA della specie estinta e lo si inietta all’interno della cellula uovo di una specie geneticamente molto vicina. Questa operazione è stata già fatta nel 2003 con un’altra specie de-estinta, lo stambecco dei Pirenei. Il suo DNA è stato estratto da cellule dell’ultimo esemplare, che era morto nel 2000, e inserito nella cellula uovo di una femmina di capra che ha partorito un cucciolo, un clone dell’originale, anche se è vissuto pochissimo a causa di una malformazione polmonare.

La clonazione dello stambecco dei Pirenei è stata tecnicamente possibile perché era un animale estinto da pochissimo tempo ed erano state conservate le sue cellule. Il problema, con le specie scomparse da migliaia di anni, è proprio la mancanza di questa materia prima. Del mammut lanoso sono stati scoperti tessuti straordinariamente conservati, ma è pressoché impossibile che al loro interno si possa rinvenire una cellula con i cromosomi intatti. Ciò che ad oggi siamo riusciti a ottenere del mammut lanoso è una ricostruzione, abbastanza completa, del suo genoma, in un caso perfino la struttura tridimensionale cromosomica rimasta “fossilizzata”. Ma nulla di sufficientemente integro da consentire una clonazione.

Frammento dopo frammento abbiamo ricostruito però, almeno in buona parte, la sequenza del DNA del mammut. Il che ci porta alla seconda, possibile, strada verso la de-estinzione: la modifica del genoma di una specie esistente e simile a quella estinta. Le nuove tecniche di editing del genoma permettono di cambiare direttamente il DNA inserendo mutazioni nei punti che desideriamo. DNA di mammut alla mano, è possibile confrontarlo con quello della specie vivente geneticamente più vicina, cioè l’elefante asiatico, e individuare le caratteristiche-chiave che li differenziano. Così facendo, si potrebbe trasformare un elefante asiatico in un mammut o in qualcosa di molto simile. Nel 2021 la Colossal Biosciences aveva annunciato che grazie a questa strategia, nel giro di sei anni, avrebbe riportato in vita un mammut lanoso. 

Nell’esperimento pubblicato nei giorni scorsi gli scienziati dell’azienda biotecnologica hanno selezionato una decina di geni che regolano la forma del pelo e il metabolismo dei lipidi, tratti caratteristici dei mammut lanosi, animali che erano adattati al clima freddo e secco delle immense steppe che ricoprivano gran parte dell’Eurasia e del Nord America. Poi, modificando il DNA dei topi con diverse tecniche, hanno prodotto alcune mutazioni in sei o sette di questi geni. Il risultato sono stati i topi dal pelo lungo e arruffato, variamente pigmentato, le cui foto hanno fatto il giro del mondo.

Il punto è che di queste mutazioni solo tre riguardano geni che gli scienziati della Colossal Biosciences chiamano “mammut-centrici”, cioè geni che dovrebbero avere un corrispettivo nel genoma del mammut e una di queste è quella del metabolismo dei lipidi. Le altre sono mutazioni del pelo che erano già note nei topi. Tutto ciò che è stato ottenuto è dunque un fenotipo, cioè tratti esteriori, la “lanosità” che era l’aspetto caratteristico di Mammuthus primigenius. Ma nelle cellule di quei topi, nel nucleo che contiene il loro DNA, del mammut non c’è praticamente nulla.

Del resto l’obiettivo dell’esperimento non era fabbricare un ibrido topo-mammut, né produrre topi lanosi, che non sono una novità in laboratorio. Non era nemmeno introdurre geni del mammut nel DNA del topo, cosa che sarebbe stata poco utile data la distanza evolutiva di decine di milioni di anni tra i due. Il ricorso a mutazioni già note del topo è stato infatti giustificato dalla necessità di generare animali vitali e sani. Il topo è un animale modello ampiamente utilizzato nella ricerca biologica e medica e spesso se ne creano versioni transgeniche per studiare alcuni geni, per esempio quelli coinvolti in malattie umane, ma neanche questo era lo scopo dell’esperimento della Colossal Biosciences.

Surrogati di specie scomparse

Dunque, qual è la novità, qual è il significato scientifico di tutto questo? La risposta non è tanto nei geni usati, ma nei metodi dell’esperimento. Lo scopo era dimostrare che è possibile usare l’editing del genoma per cambiare più geni contemporaneamente, in modo rapido e relativamente economico, all’interno del DNA di un mammifero, cosa di per sé non banale. Se questo processo diventa abbastanza efficiente potrebbe in teoria aprire la strada per qualcosa di più ambizioso, come la trasformazione di un elefante indiano in un mammut lanoso. In pratica, le cose sono molto più complicate.

Dal punto di vista genomico l’elefante indiano è già molto simile a un mammut lanoso. Il DNA delle due specie è identico per più del 99 per cento. Eppure, un elefante indiano non è un mammut. Il confronto tra i genomi del primo e del secondo ha evidenziato differenze in più di 1600 geni, molto più di quelli coinvolti nell’esperimento dei topolini, geni che non riguardano solo la forma e la lunghezza del manto, ma un ampio spettro di caratteristiche biologiche che facevano del mammut un mammifero unico, adattato all’ambiente artico.

La de-estinzione del mammut, dunque, dovrebbe avvenire in questo modo: modificando il genoma dell’elefante indiano, fino al punto in cui, correzione dopo correzione, al raggiungimento di una soglia sostanzialmente arbitraria, si stabilisce che il suo DNA è diventato quello di un mammut. Ma possiamo chiamarlo davvero mammut? «Ciò che al massimo potremmo ottenere in questo modo da un elefante indiano non è un mammut, ma un suo surrogato», ha detto a Facta il biologo e giornalista scientifico Massimo Sandal, che all’estinzione e alla de-estinzione ha dedicato il saggio La malinconia del mammut. E il sito stesso di Colossal Biosciences ammette di voler ricreare non il mammut com’era, ma «un elefante resistente al freddo con tutti i tratti biologici fondamentali del mammut lanoso».

Colossal Biosciences, ci spiega Sandal, ha avuto l’obiettivo di testare metodi per la modifica contemporanea di più geni, e in questo sta l’importanza scientifica del suo esperimento. Ma, nello stesso tempo, doveva ottenere qualcosa che si potesse esibire in una vetrina, un risultato che giustificasse i corposi investimenti privati affluiti nei suoi progetti. Difficilmente, infilando davvero geni di mammut nel contesto genetico di un topo, si sarebbe ottenuto qualcosa di presentabile, che attirasse i media. Invece, topolini carini e lanosi catturano subito la nostra attenzione. Le loro immagini sono rimbalzate sui media ed è il motivo per cui ne stiamo parlando. Sembra un gioco di prestigio e forse lo è.

Ma che ce ne faremmo del surrogato di un mammut? La giustificazione potrebbe essere ecologica. Se creassimo un elefante indiano modificato, che magari non è esattamente un mammut ma fa quello che facevano i mammut, potremmo ripopolare le aree un tempo abitate da questi animali e rigenerare un ecosistema oggi pressoché scomparso. È di nuovo la stessa Colossal Biosciences a dichiararlo: «se l’ecosistema della steppa dei mammut potesse essere ripristinato, ciò potrebbe contribuire a invertire il rapido riscaldamento del clima e a proteggere il permafrost artico, una delle più grandi riserve di carbonio del mondo». Di certo, non è ripopolando la Siberia di pseudo-mammut che fermeremo il riscaldamento globale, cosa che possiamo fare solo azzerando le emissioni prodotte dai combustibili fossili ma, dice l’azienda, questi vecchi-nuovi animali potrebbero darci una mano.

Ne vale la pena? «Con i soldi con cui de-estinguiamo una specie ne potremmo salvare da 20 a 40», osserva Sandal, ricordando uno studio del 2017. Anche se questa operazione avesse un senso scientifico ed ecologico, il rapporto tra costi e benefici sarebbe molto sfavorevole. Colossal Biosciences è un’azienda biotecnologica e il suo lavoro potrebbe avere applicazioni più prosaiche, probabilmente più utili, della de-estinzione del mammut e di altre specie.

Alla fine, ci dice Sandal, c’è qualcosa di irrazionale e di viscerale, qualcosa che ci spinge a essere affascinati dall’idea di riportare in vita specie estinte che ci sembrano quasi esseri mitologici, animali simbolo di un mondo perduto. Ma questo ha più a che vedere con la nostra fantasia e i nostri desideri che con la salvezza degli ecosistemi. Siamo partiti da Jurassic Park e lì torniamo.

Anche se non vedremo mai mammut, o qualcosa che ci somiglia, calpestare di nuovo il suolo dell’Eurasia, dovremo fare i conti con i progressi delle tecnologie genetiche e con la possibilità di trovarci a decidere se riportare davvero in vita una specie estinta da poco tempo, di cui ancora esiste una nicchia ecologica. Ma oggi, per rimediare ai nostri disastri ambientali, sarebbe urgente che conservassimo quello che c’è, specie ed ecosistemi oggi minacciati, piuttosto che costruire una finzione, un simulacro di ciò che ormai non c’è più da molto tempo.

Credit immagine di copertina: Colossal Biosciences via Nature

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