Chiaramente, non è la prima volta che Trump partecipa a eventi dell’UFC. Anzi: è almeno dal 2001 che intrattiene rapporti molto stretti con il presidente Dana White.
All’epoca l’organizzazione era in estrema difficoltà economica, e si parlava addirittura di un possibile divieto delle competizioni perché giudicate troppo cruente. Trump ospitò due eventi dell’UFC al Trump Taj Mahal di Atlantic City, contribuendo a rilanciarne l’immagine e le finanze.
La popolarità delle arti marziali miste ha avuto un picco durante la pandemia di Covid-19. L’UFC è stato uno dei pochissimi campionati a rimanere operativo durante la fase più acuta dell’emergenza sanitaria, conquistandosi così una nuova fetta di pubblico formata soprattutto da giovani maschi.
White, dal canto suo, ha sempre sostenuto politicamente Trump. L’ha appoggiato nel 2016 e di nuovo nel 2020, mentre in quest’ultima campagna elettorale è apparso spesso al fianco del candidato. Come ha annotato il New Yorker, il presidente dell’UFC è stato anche un ufficiale di collegamento tra l’entourage trumpiano e il mondo dei podcast maschili statunitensi, in cui si parla molto di sport di combattimento.
Tant’è che la sera del 5 novembre, quando la vittoria di Trump era ormai certa, White è salito sul palco del centro congressi di Palm Beach e ha ringraziato calorosamente «i Nelk Boys, Adin Ross, Theo Von, Bussin’ With the Boys e ovviamente il mitico Joe Rogan».
Perché la campagna di Donald Trump ha puntato sui podcast
Secondo il presidente dell’UFC sono proprio questi creatori di contenuti ad aver fornito un contributo decisivo al successo di Trump.
Non è l’unico a pensarlo: stando a diverse analisi, queste figure hanno ricoperto un ruolo cruciale nella strategia propagandistica trumpiana, imponendosi come una delle novità mediatiche più rilevanti di questo ciclo elettorale.
Nei mesi finali della campagna, infatti, Trump è stato ospite in decine di canali YouTube seguiti da milioni di persone e gestiti da creator rigorosamente maschi e bianchi. I numeri delle apparizioni in questione sono a dir poco impressionanti: la diretta con lo streamer Adin Ross ha totalizzato 2,6 milioni di visualizzazioni; l’apparizione a IMPAULSIVE di Logan Paul ha raggiunto 6,7 milioni di visualizzazioni; la conversazione con il comico Theo Von è arrivata a 14 milioni; e quella di tre ore con Joe Rogan ha superato 50 milioni.
A questi numeri vanno poi aggiunti quelli delle clip disseminate su TikTok, Instagram o gli Shorts di YouTube, e quelli delle registrazioni su Spotify e altre piattaforme audio. Solo a guardare queste cifre, insomma, si capisce perché Trump abbia snobbato la televisione e i media mainstream rispetto al 2016 e al 2020: non ne aveva più bisogno come una volta.
Per il resto, la scelta di andare in quei canali è stata pianificata a tavolino in base a diverse ragioni economiche e comunicative.
Anzitutto, la campagna della sfidante democratica Kamala Harris ha investito molti più soldi nella pubblicità digitale (ad esempio su Facebook e Instagram) rispetto a quella di Trump. Per colmare quel divario, ha spiegato a Wired il consulente Alex Bruesewitz, «abbiamo dovuto trovare strade alternative per massimizzare la visibilità del presidente Trump».
Il formato podcast presentava inoltre diversi vantaggi rispetto ai media tradizionali. «Quando sei in televisione c’è un limite a quello che puoi dire, devi comunque smussare le tue dichiarazioni», ha spiegato un altro consulente trumpiano alla Columbia Journalism Review, «ma sui podcast sei in un ambiente più rilassato, dove puoi parlare della tua pizza preferita e apparire molto meno distante e ingessato del solito».
Inoltre, in quegli spazi c’è la totale assenza di intermediazione giornalistica. I creator in questione – scelti da dal figlio minore Barron – si percepiscono come degli intrattenitori, e non come giornalisti. Di conseguenza non hanno alcun interesse a fare domande scomode o correggere le affermazioni false o fuorvianti di Trump (che ha fatto in abbondanza pure lì).
Non a caso, il clima delle ospitate è sempre accomodante se non deferente: non sono impostate come interviste con un politico, per l’appunto, ma come una chiacchierata informale tra amici. Del resto, come ha scritto su Threads la professoressa ed esperta di disinformazione Renée DiResta, «comprare gli influencer è molto meglio che creare dei profili falsi, perché gli influencer si portano dietro il loro pubblico e sono, beh, reali».
Il voto dei bro che ha riportato Trump alla Casa Bianca
La principale motivazione dietro a quella strategia è stata però elettorale: a Trump serviva raggiungere quella fascia giovanile – in larghissima parte maschile – che segue assiduamente questi creator e influencer. Il pubblico del podcast di Joe Rogan, giusto per citare un dato, è composto all’80 per cento da uomini.
Non è un caso: quei canali fanno infatti parte di un ecosistema social-mediatico imbevuto della cosiddetta «bro culture», dove «bro» è il diminutivo di «brother» (fratello). Si tratta di una sottocultura associata al mondo dei college e delle confraternite studentesche, nonché a qualsiasi ambiente sociale maschile caratterizzato da una forma di complicità tossica che sfocia in atteggiamenti ipermaschilisti, reazionari e transmisogini.
Negli ultimi anni il termine è stato utilizzato per descrivere comunità di giovani maschi fissati con la palestra e gli steroidi (i gym bro), la tecnologia e l’informatica (i tech bro), oppure le criptovalute (i crypto bro).
Trump era visto di buon occhio da queste comunità già prima delle elezioni. Secondo una rilevazione di FDU Poll, ad esempio, aveva un vantaggio di dodici punti percentuali su Harris (50 a 38) presso gli investitori in criptovalute; nel campione, il 43 per cento di questi possessori era under 30.
Questo apprezzamento sembra essere stato confermato da vari sondaggi post-voto. Secondo un exit poll di NBC News, il 49 per cento dei maschi under 30 avrebbe votato Trump, mentre Harris si è fermata al 47 per cento. Un’analisi del Wall Street Journal ha registrato, sempre nella stessa fascia demografica, uno spostamento a destra di quasi trenta punti percentuali rispetto alle elezioni del 2020.
La campagna repubblicana è dunque riuscita a massimizzare una tendenza in atto da tempo negli Stati Uniti (e non solo): i maschi della generazione Z sono più conservatori delle femmine della stessa età, e in generale sono più a destra delle generazioni precedenti.