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Qual è il rischio dei vulcani italiani?

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3 febbraio 2022
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Aggiornamento: l’articolo è stato modificato il 10 febbraio 2022 dopo che i lettori ci hanno segnalato alcune imprecisioni e un errore. L’eruzione del vulcano Hunga Tonga è avvenuta nel gennaio 2022 (e non 2021, come avevamo erroneamente scritto); l’Italia non è l’unico Paese europeo ad ospitare vulcani attivi, è l’unico Paese ad ospitare vulcani attivi sul continente europeo; infine, l’area di Napoli è racchiusa tra due zone vulcaniche: Vesuvio, a oriente, e Campi Flegrei, a occidente (non il contrario). Ci scusiamo con i nostri lettori.

L’impressionante eruzione del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha’apai, il 15 gennaio 2022, con conseguenze drammatiche non solo per gli abitanti delle isole Tonga ma anche a grande distanza, ha ricordato al mondo che il nostro pianeta è ancora attivo. Vivere all’ombra di un vulcano è una cosa abbastanza normale: circa 500 milioni di persone nel mondo vivono nel raggio d’azione di uno dei circa 550 vulcani attivi presenti sulla Terra. Nel solo ventesimo secolo i vulcani hanno causato quasi 100.000 vittime e coinvolto 5,6 milioni di persone. È un numero elevato, ma molto più basso rispetto ad altri disastri naturali: le alluvioni nel ventesimo secolo, per esempio, hanno causato secondo le stime 6,8 milioni di decessi. Questo non significa che si tratti di un rischio da sottovalutare: singole eruzioni catastrofiche possono causare decine di migliaia di vittime in pochissimo tempo.

I principali vulcani italiani sono Vesuvio, Campi Flegrei, Etna e i vulcani delle Isole Eolie (Vulcano e Stromboli). Vi è stata attività vulcanica in tempi storici anche nel canale di Sicilia (intorno all’isola di Pantelleria) e a Ischia, dove l’ultima eruzione del monte Epomeo risale al 1302. Il Tirreno, inoltre, ospita diversi vulcani sottomarini. Abbiamo cercato di capire come questi vulcani vengono monitorati e quali sono i rischi a loro collegati.

Come funziona il monitoraggio dei vulcani

Il monitoraggio dei vulcani italiani è attivo 24 ore su 24 a opera dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), ed è tra i più accurati e capillari al mondo. Se monitorate con attenzione, infatti, le eruzioni vulcaniche sono spesso prevedibili con buon anticipo, sia pure non con perfetta precisione: Giuseppe Salerno, ricercatore dell’Osservatorio Etneo dell’Ingv, ha detto a Facta che mutamenti nelle condizioni di vulcani come l’Etna permettono predizioni sulla scala dei mesi sull’attività generale, mentre mutamenti a breve termine nell’attività possono essere visti con ore di anticipo. In alcuni casi però per le caratteristiche del vulcano la previsione di eventi estremi, per esempio nelle Eolie, è limitata a pochi minuti: è il motivo per cui ora a Stromboli è vietato l’accesso alla sommità.

Come ci ha raccontato il geologo e vulcanologo Giovanni Macedonio, ricercatore dell’Osservatorio Vesuviano dell’Ingv, il monitoraggio si fonda su tre tipi di dati. Il primo è il monitoraggio sismico, ovvero dei terremoti che avvengono nella zona vulcanica. È bene ricordare che i terremoti nelle zone vulcaniche, anche se spesso troppo leggeri per essere avvertiti, sono la norma; ma è la loro tipologia ed evoluzione che ci dice qualcosa su cosa succede nel vulcano. In particolare le vibrazioni note come eventi di lungo periodo indicano un movimento del magma che può indicare un risveglio del vulcano.

Il secondo è la misura delle deformazioni del terreno, ovvero di come il vulcano si gonfia o si abbassa. Questi movimenti, impercettibili perché lenti e spesso di pochi millimetri o centimetri, monitorati tramite sensori di inclinazione, sensori Gps o direttamente dallo spazio – tramite i radar della rete di satelliti Sentinel dell’Unione europea – sono direttamente correlati al movimento di magma, fluidi e gas sotterranei: possono dare informazioni in anticipo sull’attività vulcanica futura. I rigonfiamenti, in particolare, sono correlati alla risalita di magma e, quindi, alla possibilità di eruzioni vulcaniche. I Campi Flegrei sono un esempio di zona che, dal 2016, sta continuando a sollevarsi, il che significa che la pressione all’interno del vulcano è in aumento e la situazione va monitorata con particolare attenzione.

Il terzo è il cosiddetto monitoraggio geochimico, ovvero l’analisi dei gas emessi nella zona vulcanica. I gas disciolti nel magma infatti vengono liberati quando questo si avvicina alla superficie e la pressione diminuisce, un fenomeno analogo a quello per cui una bottiglia di acqua gassata libera le bollicine quando viene stappata. La composizione dei gas è correlata alla profondità del magma che lo rilascia, e quindi fornisce un’indicazione diretta sulla risalita del magma. Il monitoraggio, che è attivo 24 ore su 24, è in collegamento diretto con la Protezione Civile, che viene allertata immediatamente con una linea dedicata qualora ci fosse motivo di allarme.

Il Vesuvio

La zona di Napoli è racchiusa tra due zone vulcaniche tuttora o recentemente attive: Vesuvio, a oriente, e Campi Flegrei, a occidente. Il Vesuvio è spesso chiamato l’unico vulcano attivo dell’Europa continentale (Etna e gli altri si trovano su isole). La sua eruzione più celebre e disastrosa fu quella del 79 d.C. che distrusse Pompei e Ercolano, ma dopo di essa ha continuato a eruttare, a intervalli di decenni o secoli. Le sue ultime eruzioni risalgono al 1906 e al 1944: quest’ultima con esplosioni, colate laviche e una colonna eruttiva di gas e ceneri alta fino a 10 km.

Vesuvio, Campania – Italia

A causa del potenziale di eventi seri e della densità abitativa che lo circonda, il Vesuvio è il vulcano che pone il maggiore rischio in Italia. L’attuale periodo di riposo potrebbe durare secoli, ma è plausibile che venga seguita, secondo i vulcanologi, da un’eruzione cosiddetta di tipo pliniano, ovvero simile a quella che distrusse Pompei, o quella del 1631, la più distruttiva del millennio, che ha causato 3.500 vittime. Questa eruzione è al nono posto tra le eruzioni più mortali avvenute nella storia, precedendo l’eruzione, sempre del Vesuvio, del 79 d.C. Spesso associamo i vulcani a colate di lava fluida, ma per il Vesuvio il principale pericolo è dato dalle cosiddette nubi ardenti, o flussi piroclastici: si tratta di un flusso caldissimo (fino a 700 gradi) di lava solidificata, ceneri e gas roventi che può muoversi a velocità oltre i 100 km orari. Si tratta del fenomeno che ha ucciso gli abitanti e sepolto Pompei ed Ercolano, e più di recente che l’8 maggio 1902 ha ucciso 28.000 persone (con solo due superstiti) nell’isola della Martinica, in seguito all’eruzione del vulcano La Pelée.

Si stima, in base alle eruzioni passate, che durante un’eruzione le nubi ardenti possano interessare un raggio di circa 12 km intorno al Vesuvio. L’attuale zona rossa prevista dalla Protezione Civile però segue i confini dei comuni posti approssimativamente lungo un raggio di 8 km intorno al vulcano: all’interno di tale zona si trova l’Ospedale del Mare, uno dei più grandi ospedali del Mezzogiorno. Il piano prevede che l’intera zona rossa (che comprende 670.000 abitanti distribuiti in 25 comuni) venga evacuata entro 72 ore. I vulcanologi dell’Ingv Benedetto de Vivo e Giuseppe Rolandi hanno denunciato però l’assenza di ampie vie di fuga che possano facilitare un’evacuazione rapida in caso di scarso preavviso. In seguito all’evacuazione, gli abitanti verranno sfollati in tutta Italia tramite un sistema già predisposto di gemellaggi tra comuni coinvolti e regioni italiane.

Questo però non è l’unico rischio. Come ha raccontato a Facta Giovanni Macedonio dell’Osservatorio Vesuviano, uno dei principali pericoli è dato dalla ricaduta delle ceneri, esattamente come avvenuto alle Tonga. Il peso delle ceneri, quando queste superano i 30-40 cm di spessore, oltrepassa i 300-400 kg per metro quadro: abbastanza per far collassare i tetti degli edifici. È successo per esempio nel 1944, quando le ceneri emesse dal Vesuvio tra il 22 e il 23 marzo fecero 23 vittime a causa del collasso dei tetti. La Protezione Civile ha delimitato una zona gialla che comprende i territori sottoposti a questo rischio: come si può vedere dalla mappa, questa coinvolge in gran parte comuni a est del Vesuvio, in quanto i venti fanno cadere le ceneri verso quella direzione.

Le ceneri imbevute d’acqua piovana inoltre possono causare colate di fango estremamente distruttive note col termine indonesiano lahar. I lahar, per esempio, hanno distrutto le abitazioni di oltre 100.000 persone dopo l’eruzione del 1991 del vulcano Pinatubo, nelle Filippine. I lahar rappresentano un rischio latente che può verificarsi anche molto tempo dopo l’eruzione: un esempio estremo è dato dalle alluvioni di fango che hanno colpito Sarno, in provincia di Salerno, nel 1998, dovute alla frana di ceneri cadute oltre 3.800 anni prima.

Le ceneri emesse dal Vesuvio o altri vulcani, inoltre, anche nel caso di un’eruzione a bassa intensità, potrebbero avere conseguenze sul traffico aereo, un po’ come è accaduto nel 2010 con l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökull. Spinte a est dai venti stratosferici, le ceneri del Vesuvio potrebbero rendere le operazioni di volo difficoltose o impossibili lungo una vasta area che comprenderebbe non solo il Sud Italia, ma anche tutto il Mediterraneo orientale: Albania, Grecia e perfino la Turchia.

Per affrontare questo rischio, l’aviazione civile partecipa a esercitazioni annuali organizzate dall’International civil aviation organization (Icao). Inoltre, Ingv e l’Ente nazionale per l’aviazione civile (Enac) organizzano ulteriori esercitazioni annuali che simulano eruzioni di Etna o Vesuvio. Una corretta gestione di questi eventi è estremamente importante, afferma Macedonio: «Se i voli venissero colti di sorpresa dalle ceneri, gli aerei già in volo non saprebbero dove atterrare, perché tutti gli aerei sarebbero costretti ad atterrare tutti insieme e non ci sarebbero slot disponibili».

I Campi Flegrei

La zona dei Campi Flegrei non corrisponde a un singolo cono vulcanico ma a un’area di 15-20 km di diametro che include ben 35 bocche. I Campi Flegrei sono stati la sede della più catastrofica eruzione vulcanica europea degli ultimi 200.000 anni, e la più violenta mai avvenuta nel Mediterraneo: l’eruzione cosiddetta dell’ignimbrite campana, circa 40.000 anni fa, che si stima abbia generato una colonna di ceneri alta 30 km ed emesso 67 chilometri cubi di magma in sole 7 ore, e si pensa possa aver avuto un ruolo nel declino e l’estinzione dell’uomo di Neanderthal. Le ceneri dell’eruzione si possono ritrovare ancor oggi in Russia, a migliaia di chilometri di distanza. Da quel momento vi sono state altre eruzioni significative, principalmente nel periodo tra 5.500 e 3.800 anni fa: l’ultima eruzione è avvenuta però in tempi storici, tra il 29 settembre e il 6 ottobre 1538, e ha portato alla formazione di Monte Nuovo, collina che oggi sovrasta la zona est di Pozzuoli.

Al momento la zona dei Campi Flegrei si trova in stato di allerta giallo a causa di una fase di attività che ha portato a un sollevamento del terreno a partire dal 2006. Non è la prima volta che i Campi Flegrei inducono preoccupazione: negli anni ‘70 e ‘80 il sollevamento del terreno (noto come bradisismo) ha raggiunto i 3,5 metri e indotto all’evacuazione di migliaia di persone. Sebbene non ci sia motivo, al momento, di temere un’eruzione catastrofica come quella di 40.000 anni fa, anche un’eruzione moderata nei Campi Flegrei potrebbe causare danni seri, per i possibili flussi piroclastici e delle ricadute di cenere in una zona ad alta densità di popolazione. Per questo i Campi Flegrei sono considerati una delle zone a più alto rischio vulcanico del pianeta. Anche per i Campi Flegrei c’è un piano della Protezione civile che delimita zone rosse e gialle. Il rischio è più difficile però da localizzare geograficamente rispetto al Vesuvio, perché non c’è un unico cono vulcanico: non si sa in anticipo, quindi, in quale punto della zona vulcanica ci sarà una nuova eruzione.

L’Etna

Rispetto al Vesuvio, l’Etna è considerato un vulcano meno pericoloso, anche se praticamente sempre attivo. Nel 122 a.C. l’Etna eruttò con un evento anomalo e violento di tipo pliniano (simile alle eruzioni del Vesuvio) e ci sono spesso eventi esplosivi che possono portare a cadute di ceneri potenzialmente pericolose, principalmente sul versante orientale. Un esempio c’è stato a partire dal marzo-aprile 2021, con ricadute continue di ceneri che hanno portato a richiedere lo stato di emergenza.

Etna, Sicilia – Italia

I terremoti associati alla risalita di magma, come quello del 26 dicembre 2018, che è stato il più forte degli ultimi 70 anni, possono avere serie ripercussioni su strade, edifici, acquedotti e altre infrastrutture, in quanto generano fratture (faglie) superficiali in cui il terreno si sposta di vari centimetri o addirittura metri.

Il principale rischio associato all’Etna però è dovuto alle colate laviche dalle bocche laterali; queste colate possono muoversi con relativa velocità (qualche km al giorno, abbastanza lentamente da consentire l’evacuazione delle persone) e percorrere lunghe distanze. In totale questo rischio coinvolge 42 comuni in cui abitano quasi un milione di persone. Un esempio è l’eruzione dell’11 marzo 1669, con una colata lavica che arrivò a lambire le mura della città di Catania e distrusse undici villaggi. Un evento simile, per quanto raro, oggi causerebbe danni stimati in 7 miliardi di euro. Più di recente, nel 1928, la lava distrusse la cittadina di Mascali, costringendo 2.000 persone a cambiare permanentemente residenza. Tra 1979 e 1993, le colate laviche hanno minacciato i centri abitati di Fornazzo, Randazzo e Zafferana Etnea, con danni a edifici, strade, ferrovie e coltivazioni.

Il rischio associato all’Etna nel tempo sta aumentando: non perché aumenti la pericolosità del vulcano, ma perché sono in crescita la densità della popolazione e le infrastrutture che potrebbero essere coinvolte. Secondo recenti simulazioni al calcolatore, in caso di eruzione è probabile la gran parte del flusso di lava si accumuli nella Valle del Bove, pressoché disabitata, mentre la maggior parte del rischio, per la combinazione di probabilità di flusso lavico e densità di popolazione, è concentrato a nord di Catania, nei comuni di Gravina, Tremestieri Etneo e San Giovanni La Punta.

Un aspetto positivo è che, almeno in parte, il pericolo dovuto alla lava si può contrastare, a differenza delle nubi ardenti e delle ceneri. Proprio durante le eruzioni dell’Etna tra 1983 e 2002 sono state costruite barriere di terreno che sono riuscite almeno in parte a rallentare e limitare il flusso di lava dal vulcano, e oggi sono allo studio modelli che permettano di progettare in anticipo tali barriere in modo ottimale.

Isole Eolie e monti sottomarini

Benché le Isole Eolie siano monitorate da decenni dall’Ingv, il Centro per il monitoraggio delle Isole Eolie (Cme) è l’ultimo arrivato: è operativo da gennaio 2020, ed è stato concepito in seguito alle eruzioni dello Stromboli del 3 luglio (con un decesso) e 28 agosto 2019. I vulcani delle Isole Eolie sono diversi tra loro: Vulcano alterna attività esplosive forti ed emissioni di nubi di cenere a lunghi intervalli di quiete. L’ultimo periodo di attività ha avuto luogo tra il 3 agosto 1888 e il 2 marzo 1890. Stromboli è celebre per la sua attività persistente, con piccole esplosioni di 10-15 minuti ogni poche ore o giorni, ma può dare luogo anche a forti episodi eruttivi, con lancio di blocchi di grandi dimensioni e flussi piroclastici, come appunto nell’estate 2019. Anche Lipari e Panarea, benché al momento quiescenti, sono zone con attività vulcanica.

L’isola di Vulcano, nelle Eolie, ha mostrato una rinnovata attività dal settembre 2021, con un aumento di attività sismica, variazioni nelle temperature del cono e nella composizione dei gas legati alla risalita di magma, tali da far salire l’allerta al livello giallo. L’Ingv ha rafforzato la sorveglianza con nuove stazioni sismiche e una telecamera termica. Le emissioni di gas interessano anche l’abitato, tanto che a novembre 2021 è stato necessario evacuare l’isola, anche se poi il pericolo è rientrato.

Secondo Giuseppe Salerno dell’Ingv, il rischio di eventi esplosivi e tsunami da parte dei vulcani delle Eolie è reale, anche se in questo preciso momento non c’è motivo di preoccuparsi. Tsunami di bassa entità sono relativamente comuni: nel 1988 una frana del cono di Vulcano indusse un piccolo tsunami, così come analogamente nel 2002 accadde a Stromboli.

Assieme alle Eolie, il Tirreno e il Canale di Sicilia ospitano vulcani sottomarini, alcuni scoperti solo di recente (sette vulcani della cosiddetta catena del Palinuro sono stati identificati solo nel 2017). Dei vulcani sottomarini italiani, il più noto è il Marsili, il vulcano più esteso d’Europa e del Mediterraneo, che si alza di quasi 3000 metri dal fondale e occupa un’area lunga 70 km e larga 30. In teoria, secondo Salerno, non è impossibile che tali vulcani possano sviluppare un’attività eruttiva importante ed esplosiva, anche se al momento, ci rassicura Salerno, non c’è motivo di pensare che accada. L’attività del Marsili infatti è stata finora scarsamente esplosiva e il rischio di un evento catastrofico è estremamente basso, anche se non si può escludere del tutto che accadano grossi smottamenti sottomarini con conseguenti tsunami.

In conclusione

A differenza di altre calamità naturali, i vulcani rappresentano a oggi un rischio in buona parte prevedibile, se monitorati in dettaglio. In questo senso, i vulcani italiani sono tenuti sotto strettissima osservazione e sia la Protezione civile sia i vulcanologi hanno un’ottima consapevolezza dei rischi. Anche se sono avvenuti in passato eventi assolutamente catastrofici, come l’eruzione di 40.000 anni fa dei Campi Flegrei, al momento è improbabile che accadano eruzioni paragonabili a quella delle isole Tonga, e in particolare i vulcani sottomarini come il Marsili non sembrano allarmare gli specialisti. È però del tutto probabile che in futuro avvengano eventi capaci di causare danni seri alla popolazione, agli edifici e alle infrastrutture.

La popolazione che vive vicino ai vulcani è consapevole di un rischio che spesso ha letteralmente sott’occhio tutti i giorni, ma non ha necessariamente tutti gli strumenti necessari per affrontarlo. Secondo Giovanni Macedonio dell’Osservatorio vesuviano, «potrebbe essere utile rinfrescare più spesso la memoria ai cittadini: non solo dire loro che c’è un pericolo a cui stare attenti, ma far sì che ogni cittadino sappia, in caso di pericolo, esattamente cosa deve fare. Lo abbiamo visto con la pandemia: non basta dire che il virus è pericoloso ma abbiamo dovuto spiegare cosa fare, quali precauzioni prendere. Servirebbe quindi fare più esercitazioni». Come ha ricordato a Facta Giuseppe Salerno dell’Osservatorio etneo: «Esiste la consapevolezza del vulcano, per chi nasce e vive qui. Però la memoria dell’uomo svanisce velocemente: certe cose vengono dimenticate, e lo si ricorda solo quando accadono di nuovo».

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