Perché falò e fuochi d’artificio sono un rischio per l’ambiente  - Facta
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Perché falò e fuochi d’artificio sono un rischio per l’ambiente 

di Anna Toniolo

I grandi falò di inizio anno, che avvengono principalmente in occasione dell’Epifania, sono una tradizione popolare diffusa nelle regioni del nord-est dell’Italia e in alcune parti dell’Emilia occidentale. Si tratta di un’usanza così comune che ne esistono molte versioni e, soprattutto, denominazioni diverse tra loro: in Friuli questo evento è chiamato pignarûl, nelle province di Treviso, Venezia e Pordenone sono più comuni nomi come panevìn, da “pane e vino” come segno di augurio per un anno di abbondanza, ma anche pìroła-pàroła, vècia, cioè “vecchia”, fogherada e bubarata e ancora, in altri territori, sono diffusi nomi come tamòsse o casera, fino al bolognese brüsa ul vécc.    

Sembra che questa usanza derivi da riti propiziatori diffusi addirittura in epoca pre-cristiana, dove la fiamma simboleggiava, e lo fa ancora oggi, la speranza di bruciare il vecchio – ciò che appartiene al passato – come preoccupazioni, problemi e negatività. Generalmente si brucia una catasta di paglia e legna e in alcuni casi all’estremità del falò è presente un fantoccio che rappresenta la Befana, cioè la “vecchia” che viene bruciata proprio perché simboleggia ciò che non si vuole portare dal passato nel nuovo anno. Talvolta, inoltre, il rogo è benedetto dal parroco e, secondo la tradizione popolare, la direzione del fumo e delle faville indicherebbe l’abbondanza del raccolto dell’anno che sta iniziando.

Ma non solo fuochi dell’Epifania. La tradizione di fare grandi falò è diffusa anche in altri territori, in occasione di ricorrenze diverse come ad esempio il “falò di Sant’Antonio”, che viene appiccato il 16 o il 17 gennaio e, anche in questo caso, simboleggia la volontà di abbandonare ciò che appartiene ai mesi passati e di rinnovarsi.       

Una tradizione popolare diffusa e diversificata sui vari territori che da qualche anno, però, viene limitata da alcune amministrazioni locali. In diversi casi, infatti, i roghi potrebbero aggravare una situazione dell’aria già compromessa dall’inquinamento urbano. Questi vincoli provocano ogni volta, inevitabilmente, un’ondata di indignazione e polemiche sui social che sminuiscono il problema dell’inquinamento legato ai falò o, addirittura, lo negano, gridando alla cancellazione di una «tradizione contadina millenaria» in nome del cambiamento climatico.     

Qual è, quindi, la verità sull’impatto dei roghi dell’Epifania sull’ambiente? Ma soprattutto, esiste davvero un legame tra questi e l’inquinamento? La risposta è sì: nonostante sia un evento circoscritto a una sola giornata, questo, in particolari condizioni, può contribuire a peggiorare le condizioni dell’aria e i falò possono rappresentare un pericolo per la sicurezza e per l’incolumità delle persone. 

I falò sono nocivi per la qualità dell’aria
Come riportato sul sito della Regione Lombardia, i falò rituali contribuiscono al peggioramento della qualità dell’aria, producendo effetti che possono persistere per diversi giorni, «soprattutto nei periodi invernali di stabilità atmosferica favorevole all’accumulo degli inquinanti».

L’Agenzia regionale per la protezione ambientale del Veneto (Arpav) ha spiegato a Facta che «in generale è bene precisare che la combustione di biomasse [cioè qualsiasi sostanza di matrice organica, vegetale o animale, destinata a fini energetici, ndr], anche nell’ambito del riscaldamento domestico, è individuata tra le sorgenti significative in particolare per l’emissione in atmosfera di polveri sottili». A parità di biomassa bruciata, però, la quantità di particolato atmosferico emessa dipende dall’efficienza della combustione e dall’adeguata stagionatura del combustibile: in altre parole, secondo Arpav, una combustione in ambiente controllato e con biomassa correttamente stagionata può limitare significativamente l’emissione di particolato in aria.

Per quanto riguarda l’impatto dei roghi epifanici sulla qualità dell’aria e le polveri sottili, l’Agenzia ha precisato a Facta che l’inquinamento da particolato atmosferico nella Pianura Padana presenta delle dinamiche di area vasta: «questo vuol dire che le concentrazioni di PM10 e PM2.5» cioè particelle inquinanti microscopiche presenti nell’aria e nocive per la salute, «variano relativamente poco nello spazio». Come ha spiegato Arpav, la concentrazione delle particelle inquinanti nell’aria varia poco anche tra località distanti perché le polveri tendono a distribuirsi e a diffondersi in maniera abbastanza uniforme nelle aree di pianura, anche su scala regionale.

In questa situazione Arpav ha evidenziato che, durante i giorni dell’Epifania, quando vengono accesi i falò, le centraline di monitoraggio della qualità dell’aria che sono poste nelle vicinanze degli eventi registrano generalmente degli aumenti delle concentrazioni di PM10, anche significative, che possono persistere in atmosfera per tempi diversi in funzione delle condizioni atmosferiche. Infatti in situazioni di stabilità atmosferica «l’aumento delle polveri può rimanere evidente per molte ore, mentre in situazioni più dispersive come ventosità accentuata e precipitazioni, i livelli di polveri diminuiscono in maniera significativa nell’arco di qualche ora» ha concluso l’Agenzia veneta per la protezione ambientale. 

L’Arpa del Friuli-Venezia Giulia, ha aggiunto che in condizioni di ristagno atmosferico in cui si verifica un accumulo delle sostanze inquinanti, si è visto come il materiale particolato rilasciato dai fuochi epifanici possa portare a concentrazioni medie orarie estremamente elevate. 

Ecco perché spesso a livello dell’Unione europea, nazionale e regionale, vengono consigliate forti restrizioni per le combustioni all’aperto che rendono più problematico il rispetto dei limiti previsti per il Pm10

Alcune amministrazioni locali, infatti, a causa dell’alta concentrazione di Pm10 nell’aria, hanno deciso negli anni di annullare i falò epifanici. Come ha spiegato Arpav a Facta, a livello locale si cerca sempre più di «contemperare l’esigenza di mantenere vive le tradizioni, con quella di limitare al massimo gli impatti sull’ambiente», riducendo il numero e la durata dei falò nel proprio territorio o prevedendo eventi alternativi ai roghi.

A Verona ad esempio, nel 2023, il tradizionale falò era stato sospeso e l’amministrazione aveva sottolineato che «nonostante sia difficile quantificare le Pm10 emesse da un falò» che dipendono da diverse variabili tra cui le condizioni atmosferiche e il tipo di combustibile usato, «è evidente l’incidenza che un falò delle dimensioni come quello di Brusa la Vecia può avere per la qualità dell’aria, con valori di inquinanti che potrebbero non solo alzarsi di molto, ma anche perdurare per diversi giorni».    

In Veneto, la normativa permette senza restrizioni i falò nel periodo di nessuna allerta, mentre li limita o addirittura li vieta in condizioni di livello allerta 1 e 2, cioè quando i livelli di polveri sottili nell’aria sono oltre il limite consentito. Nel 2024, ad esempio, il Comune di Venezia, in previsione della festività dell’Epifania, ha vietato i falò rituali, noti come Pan e vin, che siano selvaggi o non autorizzati. Il provvedimento, previsto dal regolamento comunale, oltre che per motivi di sicurezza più generali, ha deciso di limitare i falò per evitare l’innalzamento delle Pm10. Inoltre, i roghi autorizzati dovranno rispettare una rigida serie di prescrizioni, in particolare che venga bruciata nel falò una quantità di materiale vegetale non superiore ai tre steri, unità di misura di volume usata per la legna da ardere e per il carbone, e che vi sia un adeguato presidio antincendio per evitare risultati pericolosi per l’aria ma anche per l’incolumità delle persone che si trovano nelle aree circostanti. 

Come ha concluso Arpav, infatti, negli ultimi anni si è osservata «una maggiore attenzione da parte degli organizzatori sui materiali utilizzati per i falò, che non devono assolutamente includere, per norma vigente, alcun rifiuto, e che devono in ogni caso escludere materiali diversi dalla legna vergine opportunamente stagionata».

Non solo roghi, anche i fuochi d’artificio inquinano l’ambiente 
Nel periodo delle feste natalizie, però, non sono solo i roghi a essere protagonisti della tradizione. In molte zone d’Italia vengono sparati fuochi d’artificio per accogliere l’anno nuovo e celebrare insieme ad amici e parenti le festività che si susseguono in questo periodo dell’anno. Ma anche in questo caso non si tratta di gesti completamente innocui. 

Arpav ha spiegato a Facta che nel caso dei fuochi d’artificio può valere ciò che è stato detto per i falò, e cioè che «i fuochi hanno certamente un impatto locale sulla qualità dell’aria» che però è visibile per un tempo relativamente breve. Inoltre, l’aumento delle concentrazioni degli inquinanti in atmosfera e la loro permanenza nel tempo dipendono anche dalle condizioni meteorologiche.

Il comune di Milano, ad esempio, ha comunicato a dicembre 2023 che i fuochi d’artificio sono la forma di combustione all’aperto con il maggiore contributo emissivo sull’intero territorio comunale. Secondo l’Inventario delle Emissioni di Regione Lombardia prodotto da Arpa Lombardia, l’impatto dei botti è pari all’8 per cento delle emissioni totali di PM10 a Milano. Sempre nello stesso Comune, infatti, in condizioni meteorologiche stabili, il primo gennaio vengono regolarmente registrate concentrazioni di Pm10 da 2 a 5 volte superiori rispetto ai giorni immediatamente precedenti e successivi, e di 2-3 volte al di sopra del valore limite giornaliero stabilito dall’Unione Europea per la tutela della salute umana.

Il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (Snpa) ha evidenziato come a Napoli, luogo in cui la tradizione di scoppiare fuochi d’artificio e petardi è molto diffusa e sentita dalla popolazione, tra il 31 dicembre e il 1° gennaio le concentrazioni orarie di particolato sottile nell’aria raggiungono livelli estremamente elevati. 

Ma i cosiddetti “botti di Capodanno” non inquinano solamente l’aria. Come precisato in un comunicato stampa del WWF di dicembre 2021, va considerata anche l’enorme quantità di rifiuti generati dai fuochi, soprattutto per quelli detonati in mare. «L’alluminio, a contatto con l’acqua salata del mare, può modificarsi e rilasciare sostanze nocive», ha riportato l’associazione, «per non parlare della plastica e dei suoi frammenti che, sia a terra sia a mare, costituisce un vero pericolo per la biodiversità».

La Società italiana di medicina ambientale (Sima), come spiegato a Facta da Alessandro Miani presidente della stessa Società, ha stimato che dopo la notte di Capodanno rimangono nelle strade e nelle piazze italiane circa 60 mila involucri di fuochi d’artificio e botti e questi rappresentano fino a 6 tonnellate di rifiuti abbandonati nell’ambiente. Si tratta di rifiuti difficili da differenziare, poiché sono composti per il 70 per cento da cartone, plastica, legno o argilla e il restante 30 per cento da polvere pirotecnica, principalmente nitrato di potassio, zolfo, carbone e metalli pesanti come il magnesio e il rame. 

Infine, i fuochi d’artificio costituiscono un pericolo anche per la vita di persone e animali. Secondo quanto riportato dall’agenzia Ansa, nei festeggiamenti tra il 2023 e il 2024 si è registrata una vittima, mentre i feriti sono stati 274, di cui 12 da armi da fuoco e 262 da fuochi d’artificio. Si tratta di dati in aumento di oltre il 50 per cento rispetto all’anno scorso.  

Sempre secondo il WWF, invece, si stima che in Italia almeno 5mila animali muoiano ogni anno a causa dei botti di Capodanno. Di questi circa l’80 per cento sono animali selvatici che, spaventati, perdono il senso dell’orientamento e rischiano di colpire ostacoli che risultano fatali per la loro vita, oppure abbandonano il loro dormitorio invernale vagando al buio alla cieca e muoiono per il freddo a causa dell’improvviso dispendio energetico a cui sono costretti in una stagione in cui solitamente sarebbero in letargo. 

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