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I molti errori e imprecisioni nell’articolo del Post sul fact-checking

Opinioni presentate come fatti e scarsa conoscenza del Third Party Fact-Checking Program

19 gennaio 2025
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In un articolo anonimo pubblicato sul giornale online Il Post il 17 gennaio e intitolato “Il fact checking sui social serviva a qualcosa?” si riportano diverse imprecisioni sul programma di collaborazione tra Meta e i progetti di fact-checking (Third Party Fact-Checking Program o 3PFC). Vengono inoltre presentate informazioni errate e scarsamente sostenute da prove sia sul programma che sui progetti di fact-checking, facendo passare a lettrici e lettori molte opinioni parziali come fatti dimostrati.

La prima imprecisione è che il partner italiano sia la testata Pagella Politica. Per quanto Pagella Politica abbia partecipato al 3PFC dalla partenza del progetto in Italia nel gennaio 2018 al 2020, da quell’anno il partner italiano è Facta, testata che appartiene alla stessa società, ha lo stesso direttore (cioè chi scrive) ma una redazione separata. La seconda imprecisione è che si tratta di un’informazione incompleta: a partire da ottobre 2021, al programma si è aggiunta anche la sezione di fact-checking di Open, il giornale online di Enrico Mentana. 

L’errore è forse dovuto all’utilizzo, come fonte dell’informazione, di una pagina non aggiornata sul 3PFC gestita da Facebook (di cui abbiamo da giorni chiesto la modifica), anche se l’informazione corretta poteva essere reperita con estrema facilità. Ad esempio nelle diverse interviste concesse in questi giorni da rappresentanti di Facta a una varietà di media (non tuttavia al Post, che non ha ritenuto di contattarci per questo articolo: il che appare una curiosa deroga dalle basilari norme del giornalismo ed è ancora più straordinario considerando che lo scrivente ha fatto parte della redazione del Post per tre anni nel 2011-2014).

L’articolo contiene numerosi altri aspetti problematici, traendo le sue informazioni, come vedremo, per lo più su poche fonti scarsamente a conoscenza del programma 3PFC. Tra questi aspetti problematici: le considerazioni sugli effetti elettorali; la “perdita di popolarità” del fact-checking; un presunto pregiudizio politico dei fact-checker; la qualità delle opinioni di un esperto americano. Vediamoli nel dettaglio.

Gli “effetti” elettorali

Dopo aver scritto che «È difficile stabilire se in questi anni il fact checking di Meta abbia limitato la diffusione di notizie false: prima di tutto perché manca una controprova», che è corretto, come d’altra parte già sottolineato anche da noi, l’articolo prosegue in modo sorprendente notando che: «Non sembra comunque aver limitato più di tanto i consensi di Trump». 

È un banale errore logico: se manca la controprova sugli effetti in generale, manca anche la controprova sulle conseguenze nei comportamenti elettorali. E l’anonimo autore prosegue: «la cui [i.e. di Trump] vittoria alle presidenziali del 2024 è stata utilizzata dai critici del fact checking come prova del fallimento di chi riteneva utile rincorrere ogni sua affermazione falsa per sbugiardarlo». Non è chiaro chi siano questi “critici”. I quali, se avessero usato questo argomento, risulterebbero gravemente male informati. 

Ancora una volta bisogna sottolineare, come abbiamo dovuto fare infinite volte in questi giorni rispondendo a diversi commentatori – incluso in una trasmissione televisiva, ospiti insieme a una giornalista del Post – che opinioni e discorso politico sono esclusi dal programma 3PFC, dunque all’interno di esso nessuno ha mai «rincorso» Trump per «sbugiardarlo» (Trump che, lo ricordiamo, non ha peraltro avuto accesso a Facebook e Instagram tra il 2021 e il 2023).

Non ci sono insomma molte ragioni per mettere in correlazione diretta il 3PFC e le fortune elettorali di Trump, sia perché il fine del 3PFC non è certo influenzare i comportamenti elettorali (sarebbe stato grave e preoccupante il contrario), sia perché le dichiarazioni di partiti e di politici sono esplicitamente escluse dal programma insieme a idee e opinioni, come dicono le stesse linee guida del programma, che sono pubbliche. C’è poi un problema di fondo. Prendere in considerazione il solo esito delle elezioni statunitensi per farne il centro della valutazione di un programma che coinvolge un centinaio di partner in 60 lingue diverse, appare frutto di un esagerato americanocentrismo. 

Per quanto riguarda l’efficacia generale, infine, bisogna notare che lo stesso Zuckerberg ha motivato il (legittimo) cambio di rotta con un presunto mutato clima culturale negli Stati Uniti dovuto alla vittoria di Trump: dunque con considerazioni politiche e di opportunità, più che per qualsiasi valutazione dell’efficacia del programma basata su studi, dati, numeri, insomma fatti. 

La popolarità persa

Ancora più sorprendente è la considerazione dell’articolo che «l’annuncio di Zuckerberg ha suscitato reazioni meno indignate di quanto forse lo sarebbero state qualche anno fa: perché nel frattempo, oltre che continuare a essere contestato dalla destra, il fact checking ha perso popolarità anche a sinistra e al centro». Sulle reazioni “meno indignate” l’opinione è legittima, anche se di nuovo priva di controfattuale, tenendo conto che sulla questione si sono espressi in modo critico il presidente uscente Joe Biden (“really shameful”), leader europei e globali dal francese Macron al brasiliano Lula, nonché numerose tra le più celebri associazioni della stampa internazionale, come Reporters Sans Frontiéres e la European Federation of Journalists

Ma l’osservazione che rispetto a «qualche anno fa» (quando?) il fact-checking abbia «perso popolarità anche a sinistra e al centro» non è supportata da alcuna prova: dunque è un’altra opinione, presentata però come un fatto. Al riguardo si potrebbe citare, ad esempio, il risultato di un sondaggio del novembre 2024 effettuato dal Reuters Institute dell’università di Oxford (ripreso dalla newsletter “Faked Up” di Alexios Mantzarlis, ex direttore di Pagella Politica e primo direttore dell’International Fact-Checking Network), secondo cui la grande maggioranza degli utenti in otto Paesi diversi crede che le piattaforme dovrebbero essere ritenute responsabili per la diffusione di notizie false sui social network. La teoria secondo cui il pubblico stia festeggiando per l’eliminazione di una presunta “censura” è ancora in attesa di fatti che la sostengano.

Gli esperti “di sinistra”

L’articolo del Post contiene molte altre imprecisioni, insieme ad accostamenti fuorvianti. Uno dei più evidenti è un grafico preso da un articolo di Nate Silver su cui torneremo tra poco. Nel grafico si mostrano le tendenze politiche di 150 “esperti di disinformazione”, tratto da uno studio del 2023 sulla Harvard Misinformation Review. Il grafico dimostrerebbe un forte posizionamento a sinistra nelle opinioni politiche degli intervistati.

Tuttavia gli intervistati oggetto dello studio non sono fact-checker, né c’entrano alcunché con il 3PFC. Lo stesso studio specifica di aver incluso «chiunque abbia svolto lavoro accademico sulla disinformazione». Esprimersi sulle posizioni politiche di alcuni fact-checker internazionali – quelli che partecipano al 3PFC – sulla base di questo sondaggio è come valutare le opinioni dei parlamentari intervistando soltanto consiglieri comunali. Non stiamo parlando della stessa cosa.

Si dà però l’erronea impressione che i fact-checker coinvolti nel 3PFC fossero di parte e avessero un’agenda politica: esattamente le accuse mosse dalla destra repubblicana statunitense e non solo. Di cui però, di nuovo, si faticano a trovare le prove.

Bisogna notare poi che il grafico in questione è stato condiviso – e probabilmente creato, dato che non si ritrova così nello studio – da Bjørn Lomborg, attivista danese noto per le sue posizioni scettiche sul cambiamento climatico, ampiamente screditate dalla comunità scientifica. Lomborg ha scritto parecchi libri sull’argomento, l’ultimo dei quali è stato tradotto in italiano con il titolo​Falso allarme. Perché il catastrofismo climatico ci rende più poveri e non aiuta il pianeta

Ma da dove arrivano i dati? Il grafico è stato creato a partire da una frase contenuta in un’appendice dello studio (Appendice A) e non è al centro dello studio stesso, che si occupa d’altro. La qualità del dato rappresentato nel grafico è insomma pessima, anche se è presentato con grande rilievo dal Post e come se fosse il risultato di un lavoro approfondito o scientificamente rilevante sulle tendenze politiche di chi si occupa di disinformazione. 

Ad ogni modo, lo ribadiamo, non riguarda né i fact-checker professionisti né il 3PFC. È stato condiviso, infine, da un personaggio che da anni porta avanti una personale battaglia contro il consenso scientifico e le conclusioni stabilite dalla scienza in modo pressoché unanime su un altro argomento (il cambiamento climatico). 

Il pezzo di Nate Silver

Altre argomentazioni importanti sembrano venire da fonti problematiche. L’articolo dà molto rilievo a due pareri in particolare: quello di Jay Van Bavel, psicologo della New York University, pubblicato sulla rivista Nature, e quello di Nate Silver, celebre esperto di sondaggi statunitense e autore di un articolo sul tema del fact-checking per la propria newsletter. 

Per esigenze di spazio evitiamo di discutere la prima, che meriterebbe comunque qualche puntualizzazione importante. Ci concentriamo piuttosto sul pezzo di Silver, che tradisce di non conoscere nulla del 3PFC, su cui pure si esprime, travisandone aspetti chiave. Questo è uno dei punti principali che Il Post estrapola dal pezzo di Silver:

«Alla fine della fiera molte delle affermazioni sottoposte al fact checking erano proprio le più problematiche, e cioè mezze verità e iperboli: contenuti basati più su opinioni che su fatti, ha scritto Silver. Anche perché se fossero state affermazioni facili da confutare, ci avrebbe già pensato qualcun altro a farlo prima dei fact checker». Questa frase semplicemente non corrisponde alla realtà e tradisce la totale ignoranza di come funzioni il 3PFC e il fact-checking su Meta, cioè il tema dell’articolo. 

Il 3PFC è, in sostanza, un sistema di segnalazione di contenuti falsi, inventati, fuori contesto (lo abbiamo presentato nel dettaglio in questo pezzo): contenuti che semplificando un po’ potremmo considerare proprio (relativamente) “facili da confutare”. Se anche qualcun altro lo avesse fatto altrove, naturalmente, ciò non ha particolare rilevanza per quanto avviene nel 3PFC, che riguarda le piattaforme di una specifica società.

Ripetiamo che idee e opinioni sono esplicitamente escluse dalle linee guida; che quanto dichiarato da politici e partiti è escluso; ma soprattutto che Silver non cita un solo fact-checking pubblicato all’interno del 3PFC che si occupi più di opinioni che di fatti. Noi stessi non ci ritroviamo per nulla nella descrizione per quanto riguarda il lavoro non solo nostro – interamente disponibile qui, con oltre 3.800 articoli in quasi cinque anni – ma di altre testate che partecipano al programma come l’Agence France-Presse (AFP), Reuters, la testata premio Pulitzer PolitiFact e molti altri. L’accusa di esserci occupati di contenuti «basati più su opinioni che su fatti» è grave e avrebbe bisogno di prove a supporto.

I casi forniti da Silver, e ripetuti senza alcuna ulteriore verifica nell’articolo del Post, sono piuttosto generici, ma non sono adeguati e tradiscono una grave approssimazione. «Silver – scrive Il Post – ha citato come esempio la loro tendenza a trattare come una teoria del complotto l’idea che durante la campagna per le presidenziali del 2024 il governo stesse cercando di nascondere i limiti fisici e cognitivi del presidente Joe Biden: versione però confermata da successivi resoconti e articoli».

Non possiamo certo parlare per altri, e sarebbe utile avere esempi di questi fact-checking scritti nell’ambito del 3PFC che hanno trattato la questione come una “teoria del complotto”. Quando Facta si è occupata della questione, lo ha fatto con un titolo che riassumeva bene il punto: «L’età di Joe Biden è un problema politico serio, ma ciò non vuol dire che la disinformazione sul tema non esista». Gli articoli prodotti sull’argomento in Italia, e a quanto ci risulta anche nel resto del mondo, si sono infatti concentrati su contenuti falsi o manipolati, che pure esistevano e che, in quanto tali, era utile segnalare. 

Come ho già avuto modo di notare, diversi altri “esempi” citati da Silver non hanno nulla a che fare con il 3PFC o sono citati in modo sbagliato e fuorviante, come la storia del laptop del figlio di Joe Biden. Su cui Meta intervenne non su input dei fact-checker ma su segnalazione dell’FBI per una presunta campagna di influenza russa.

Alla fine della fiera, né Silver né, per estensione, l’anonimo del Post dimostrano di conoscere a sufficienza ciò di cui stanno parlando, anche se fanno affermazioni gravi sulla professionalità e il lavoro pregresso di centinaia di persone, incluse alcuni giornalisti delle testate più prestigiose del mondo.

L’efficacia delle etichette 

Torniamo sull’efficacia del 3PFC, la questione centrale da cui siamo partiti, e guardiamo agli studi: se è vero che non sono disponibili dati definitivi che permettano di concludere in un senso o nell’altro (dati che non sono in possesso dei fact-checker), parecchie ricerche segnalano che la strada scelta dal programma ha in generale effetti positivi. 

Mi permetto di riprendere una lista che ho già indicato sul Corriere della Sera a un docente italiano che da anni afferma in modo perentorio come il fact-checking non funzioni, presentando la sua conclusione, erroneamente, come il consenso dell’intera comunità scientifica. 

In realtà ci sono ricerche secondo cui associare un fact-checking a un contenuto di disinformazione – ad esempio tramite un’etichetta – è «ampiamente efficace» (Martel & Rand 2023), anche per chi non ha fiducia nei fact-checker (stessi autori, 2024). Questa operazione ha avuto effetti positivi in casi di disinformazione sulla recente pandemia (Lee, Kim & Lee 2022; Barman & Colan 2023) ed è valutato dagli utenti come più efficace di metodi alternativi, quali le decisioni algoritmiche o di altri utenti (Jia & Lee 2024). Infine, una ricerca ha concluso che le etichette riducono la credibilità percepita delle notizie false (Koch, Frischlich & Lermer 2023). Associare un contenuto di fact-checking a un’informazione valutata come scorretta è esattamente la strada scelta fin dall’inizio dal 3PFC, che non porta invece alla rimozione dei contenuti.

Non si capisce allora in base a che cosa Il Post riassuma la situazione dicendo che il fact-checking «non serviva a molto», come si legge nel sottotitolo del pezzo. Secondo i dati forniti pubblicamente dalla stessa Meta, e ignorati dall’articolo, tra luglio e dicembre 2023 oltre 68 milioni di contenuti su Facebook e Instagram mostravano un’etichetta di fact-checking e nel 95 per cento dei casi gli utenti non hanno cliccato per vedere il contenuto (la fonte è qui, alle pp. 19 e 74). È tanto? È poco? È troppo? In assenza di altri dati di contesto non lo sappiamo noi, ma non lo sa neppure il giornale online.

Legittimo avere l’opinione, come si fa nella parte finale del pezzo, che il fact-checking debba essere parte di un più ampio progetto di informazione. Ma il 3PFC di cui si è annunciata l’interruzione negli Stati Uniti è un servizio specifico, che riguarda aspetti specifici e che ha un preciso meccanismo di funzionamento. Mescolare i piani e dimostrarsi così poco informati è prima di tutto un pessimo servizio per il proprio pubblico, tanto più sorprendente in una testata che dichiara senza mezzi termini – nei riquadri in cui invita a sostenerla economicamente – di «far funzionare meglio la democrazia e l’Italia».

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