Alla fine dello scorso giugno la stampa italiana ha diffuso alcuni passaggi dell’avviso di conclusione delle indagini nei confronti di Filippo Turetta, il 22enne reo confesso del femminicidio di Giulia Cecchettin, avvenuto l’11 novembre del 2023.
Dalle carte emerge che in meno di due anni – dal gennaio del 2022 fino all’11 novembre del 2023 – Turetta ha inviato oltre 225mila messaggi su WhatsApp a Giulia Cecchettin, una media di trecento al giorno.
La smania di controllo era tale per cui l’omicida aveva installato una app-spia sul telefono della ragazza. Una cosa di cui lei stessa si era accorta, e di cui si era lamentata con una certa esasperazione: «Tutti questi meccanismi di controllo su di me, che guardi quando vado a dormire, quanto tempo sto online e mi chiedi se sto scrivendo a qualcuno. Sono tutti metodi ossessivi che tu metti in pratica per controllarmi e mi fanno paura».
Nei documenti giudiziari, sempre a riprova del livello di ossessione sviluppato da Turetta, si fa riferimento anche alle 52 foto scattate a Cecchettin in un centro commerciale di Marghera poche ore prima dell’omicidio.
Alcune di queste foto sono state mostrate in un servizio di Pomeriggio Cinque News andato in onda il 28 giugno del 2024. La loro pubblicazione ha riportato in auge la teoria del complotto secondo cui Turetta non esisterebbe realmente, e di conseguenza il femminicidio di Giulia Cecchettin non sarebbe mai accaduto.
Sui social, diversi account “mattonisti” (ossia troll impegnati a produrre materiale in grado di squalificare la causa del contrasto alla violenza di genere) e complottisti hanno sostenuto che quelle foto sono state manipolate o create artificialmente. Il canale Telegram “In Telegram Veritas”, ad esempio, ha scritto che «il Main Stream [sic] ci mostra ancora foto di qualità imbarazzante dell’ultimo giorno di Giulia con l’immaginario Turetta. Ci dicono che le immagini provengono dal cellulare di Turetta. Sempre foto in bianco e nero, in bassissima risoluzione e pieni di artefatti».
In realtà, come aveva spiegato a Facta la giornalista di Mediaset Laura Magli (che ha lavorato al servizio), la bassa qualità delle immagini è dovuta al fatto che sono state prese da documenti giudiziari stampati in bianco e nero e successivamente ridigitalizzati.
Oltre ad aver dato nuova linfa al complottismo, la rinnovata attenzione mediatica sul caso ha generato una vera e propria “ondata memetica” su Filippo Turetta. In larghissima parte si è sviluppata su TikTok, dove il femminicida è diventato il protagonista di balletti e fotomontaggi improntati all’umorismo nero (o black humour), nonché di post che proclamano la sua «innocenza».
Non è la prima volta che succede. Verso la fine di novembre 2023, poco dopo l’arresto di Turetta in Germania, su TikTok erano apparsi alcuni caroselli di immagini su Giulia Cecchettin e altre vittime di femminicidio dove si assegnava un punteggio al loro aspetto fisico e si esaltavano “ironicamente” gli autori dei delitti – tra cui Turetta e Alessandro Impagnatiello, l’omicida di Giulia Tramontano.
Alcuni di questi post avevano raggiunto più di 200mila visualizzazioni, raccogliendo centinaia di commenti di questo tenore: «aspetto le femminucce incazzate per il black humour» o «se il black humour non va bene per ste robe allora non va bene nemmeno quello sull’ucraina, sugli ebrei e sulla ww2».
Per certi versi, l’utilizzo del black humour e dei meme (come quello della “tier list”, termine traducibile come «classifica») sui femminicidi ricalca la retorica dell’alt-right, un movimento statunitense di estrema destra attivo prevalentemente online.
Come ha scritto la ricercatrice Erin Stoner sul sito del Global Network on Extremism and Technology (GNET, un centro di ricerca accademico statunitense), la “memificazione” della violenza misogina «facilita un processo di desensibilizzazione, poiché presenta un contenuto estremo come se fosse qualcosa di ironico o da prendere a cuor leggero, rendendolo così più fruibile».
In più, continua la ricercatrice, «l’aspetto ironico della cultura memetica è volutamente impiegato per mascherare posizioni ideologiche dietro il pretesto della “provocazione”, scansando così ogni tipo di responsabilità». È il meccanismo del cosiddetto «diniego plausibile»: si promuovono discorsi d’odio in modo “ironico”, lasciando aperta la possibilità di negare di averlo fatto di fronte alle critiche provenienti dall’esterno.
Nelle ultime settimane, questo tipo di strategia comunicativa ha sospinto la seconda ondata di meme su Filippo Turetta – ben più numerosa e corposa nella prima.
In diversi video su TikTok realizzati con software di intelligenza artificiale generativa (di cui non metteremo link) si vede l’avatar dell’omicida di Giulia Cecchettin ballare sulle note di canzoni originali o alterate digitalmente. In una di queste, ad esempio, si può sentire il ritornello «Filippo Turetta è innocente / questo è il coro che grida la gente». Un’altra, sempre modificata con IA, recita: «uomo di sani principi come Filippo Turetta / se picchi una donna è per benevolenza».
Poi ci sono i post composti da un’immagine e le scritte in sovraimpressione. In una campeggia la foto di Turetta in tenuta da pallavolista e la scritta: «Ho 1 kill [uccisione], ho una Fiat Punto nera, sono scappato in Baviera, la mia ragazza si chiamava Giulia. Chi sono?». In un’altra compare un’immagine della serie televisiva di NetflixYou, in cui il protagonista è lo stalker Joe Goldberg, e la seguente scritta: «la mia ragazza inconsapevole che sto per tentare la filippoturettata (tranquilli non la lascio in mezzo al bosco come lui, non voglio inquinare)».
Non mancano nemmeno i meme a tema calcistico. In un video modificato con l’IA si vede Turetta uscire dai tunnel di uno spogliatoio ed entrare su un campo di calcio, con la scritta sopra di lui che dice: «pronto per il prossimo match». In un carosello di immagini il volto di Turetta è incollato sopra dei calciatori dell’Atalanta; e in un altro ancora, che ironizza sull’eliminazione dell’Italia dagli europei di calcio, si chiede la convocazione in nazionale di Turetta, Totò Riina, Francesco Schettino e Massimo Bossetti, l’uomo condannato per l’omicidio di Yara Gambirasio.
Spesso e volentieri, nelle didascalie di questi video – alcuni dei quali visti centinaia di migliaia di volte, prima di essere rimossi per violazione delle linee guida di TikTok – compare l’espressione «Turetta non esiste» o l’hashtag #filippoturettanonesiste. In questo modo, sfruttando la potenza algoritmica di TikTok, si riesce a sdoganare quella specifica teoria del complotto presso un pubblico più giovane, che non frequenta X o altri social.
Secondo Silvia Dal Dosso, artista e ricercatrice di nuove tecnologie e subculture del web, questo trend ha iniziato a prendere piede qualche mese fa su alcuni spazi online chiusi – dove Turetta è addirittura diventato un verbo («turettare») – per poi esplodere su TikTok grazie alla copertura mediatica del caso.
In un certo senso, spiega Dal Dosso a Facta, «è il primo caso di cronaca nera mainstream italiana che avviene nell’era di TikTok, e questo ha contribuito a renderla una cosa improntata al trash e all’umorismo nero».
D’altro canto, puntualizza la ricercatrice, dietro a questi meme c’è un palese tentativo di «appropriarsi del potere mediatico che ha la cronaca nera e di sfruttarlo a proprio vantaggio, cioè per trasmettere i propri ideali e la propria ideologia».
A tal proposito, il processo memetico originario è stato innescato da un nucleo di utenti «più cosciente» che ha una «tendenza sedimentata a promuovere la misoginia». Anche se recentemente il meme è diventato di massa – e quindi ha intercettato persone che non necessariamente hanno un intento malevolo – il risultato finale non cambia: «il motore primario da cui è partito il meme rimane sempre la normalizzazione del femminicidio», conclude Dal Dosso.
A poco meno di tre mesi dai fatti, il femminicidio di Giulia Cecchettin continua ad attirare l’attenzione di una consistente fetta del mondo cospirazionista italiano, mossa dal proposito di depotenziare la narrazione attorno a un caso di cronaca che ha riacceso i riflettori sul tema della violenza di genere