![](/_next/image?url=%2Fwp-content%2Fuploads%2F2025%2F02%2Fbaby-gang-italia-facta.jpg&w=1920&q=85)
I miti e i luoghi comuni sulle “baby gang” in Italia
Da tempo si parla delle gang giovanili in Italia come di un’inarrestabile emergenza nazionale. Ma è davvero così?
«Baby gang» è un’espressione giornalistica tanto di moda – al pari di movida – quanto vaga.
Viene utilizzata in maniera acritica dalla cronaca locale tutte le volte che si presenta più o meno lo stesso schema: ragazzi maschi minorenni (o poco più che maggiorenni) tendenzialmente (ma non sempre) di «seconda generazione», che provengono da contesti socioeconomici problematici, ascoltano generalmente la trap e disturbano la quiete pubblica, fanno risse, bullizzano i loro coetanei, molestano un passante o compiono atti di microcriminalità.
Stando ai titoli dei giornali le città italiane sarebbero assediate, degradate e tenute in ostaggio dalle «baby gang». E vista la frequenza con cui l’allarme viene lanciato, staremmo vivendo a contatto con un pericolo pubblico capillare e diffuso tanto nei centri urbani quanto nelle periferie. La verità, però, è che l’uso e l’abuso del termine «baby gang» ha superato il perimetro dei media ed è arrivato alla politica, si è inserito nel linguaggio delle istituzioni e ha modificato la legge italiana.
Uno dei primi politici che ha iniziato a usare la definizione «baby gang» (e che da Baby Gang, nome d’arte del rapper Zaccaria Mouhib, ha ricevuto diverse critiche) è Matteo Salvini, attualmente vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti.
Il segretario leghista ha più e più volte parlato di baby gang sul suo profilo TikTok, soprattutto in occasione del raduno a Peschiera del Garda del 2 Giugno del 2023, quando si temeva che migliaia di giovani organizzati su TikTok potessero ripetere la giornata di violenze e molestie andata in scena un anno prima. In diverse circostanze, Salvini ha proposto di reinserire la leva obbligatoria per insegnare la disciplina e il rispetto ai ragazzi appartenenti alle baby gang, in un chiaro esempio di «politicizzazione della cronaca».
Ma cosa s’intende davvero per «baby gang»? E sono davvero un’emergenza nazionale, come sembra? Abbiamo provato a capirlo leggendo i rapporti pubblicati sul tema, consultando i dati ufficiali e ascoltando le persone esperte che si occupano da tempo del fenomeno.
Le «baby gang» esistono davvero?
Partiamo dalla questione principale, quella terminologica: «baby gang» indica qualcosa che esiste davvero, o è una formula che racchiude cose molto diverse tra loro, una parola ombrello dai contorni confusi?
Secondo un rapporto pubblicato a ottobre del 2022 da Transcrime, il centro di ricerca interuniversitario sulla criminalità transnazionale, in collaborazione con il Ministero dell’Interno, quello della Giustizia e la Direzione della Polizia Criminale, al momento «manca una chiara definizione di questo fenomeno e dati sistematici che permettano di monitorarlo». Insomma, non è possibile monitorare con precisione un fenomeno di cui neppure si distinguono i contorni.
Il rapporto non parla mai di «baby gang» ma al massimo di «gang giovanili», sebbene anche in questo caso «i contorni del concetto rimangono incerti e tendono a comprendere anche diversi comportamenti o tipi di gruppo molto diversi tra loro».
![](/_next/image?url=%2Fwp-content%2Fuploads%2F2025%2F02%2Fcome-sono-fatte-baby-gang-italia.jpg&w=1920&q=85)
Secondo Gemma Tuccillo, capa del dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia, il termine migliore da utilizzare per definire un reato commesso da un gruppo di adolescenti sarebbe «disagio giovanile».
Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, i gruppi di minori che compiono atti violenti o illegali non hanno le caratteristiche di una gang o di un clan. Non hanno una gerarchia, un chiaro intento criminale, un nome, un simbolo identificativo, un codice interno e un territorio di appartenenza su cui viene imposto uno specifico controllo. Non hanno, insomma, quello che fa di una gang (o di un clan) una gang.
Come scrive Tuccillo, nei casi italiani esaminati c’è quasi sempre improvvisazione: «non di rado l’azione deviante è frutto di un agito immediato senza alcuna pregressa organizzazione o definizione». L’azione violenta è figlia delle circostanze, è situazionale, non c’è premeditazione; è sul momento che i ragazzi decidono di fare quello che fanno.
La stessa posizione esposta da Tuccillo è condivisa anche da Marco Calì, capo della squadra mobile di Milano che, intervistato da Avvenire e da Agi, ha detto che «parlare di baby gang» è riduttivo e fuorviante «già da un punto di vista metodologico».
Le vere gang, prosegue, «sono strutturate, rispondono a schemi precisi, a codici, a regole interne ed aree di influenza», mentre queste «nuove bande giovanili si aggregano e si “sciolgono” con la stessa velocità, non sono formate sempre dagli stessi elementi e si costituiscono in parte persino ‘al momento’ dopo l’incontro in luoghi magari preconcordati sui social».
C’è veramente un’emergenza «baby gang» in Italia?
Posto che di «baby gang» non si può propriamente parlare, c’è da capire se il disagio giovanile abbia o meno portato a un aumento di azioni violente.
Prima di analizzare i dati sulla criminalità giovanile ha però senso dedicare qualche parola al successo mediatico dell’espressione. I dati raccolti da Transcrime testimoniano un crescente uso di «baby gang» e «gang giovanili»: nel 2020 il numero di articoli che contenevano uno di questi due termini era 741, nel 2021 invece 1.249. In appena un anno il numero di articoli è quasi raddoppiato.
Il dato più interessante, però, si riferisce al 2022. Da gennaio ad aprile di quell’anno sono stati pubblicati 1.909 articoli sulle «baby gang». Vuol dire che, in appena sei mesi, il numero di articoli che parlavano di bande giovanili ha superato il numero di quelli pubblicati durante tutti e 12 i mesi del 2021.
Il fenomeno, insomma, sembra muoversi su due binari paralleli: nella sfera mediatica il termine è esploso e dato per scontato; in quella delle scienze sociali è circondata da dubbi e perplessità, anche e soprattutto perché «gang» fa riferimento a uno scenario americano che non trova riscontro in quello italiano.
L’espressione è stata criticata anche in un altro importante studio pubblicato nel 2023 realizzato dall’Istituto di Scienze Forensi e intitolato Criminalità minorile, non solo baby gang. Nello studio gli autori condividono gli stessi dubbi espressi nel rapporto commissionato dal ministero dell’Interno di cui abbiamo parlato finora.
«Ritenere questi gruppi come aventi una struttura stabile volta a ottenere un determinato scopo comune pone in essere delle criticità», si legge, in grado a sua volta di generare «una narrazione evocativa e suggestiva [che induce] la popolazione a reputare il fenomeno allarmante e in costante crescita».
Una narrazione che, per l’appunto, non coincide con quanto emerge dai dati ufficiali. Quelli raccolti dal dipartimento per la giustizia minorile e di comunità (fino al 2022) e del dipartimento di Pubblica sicurezza (fino al 2023) smentiscono uno stato emergenziale e, in molti casi, registrano una diminuzione di arresti e denunce a carico di minori.
![](/_next/image?url=%2Fwp-content%2Fuploads%2F2025%2F02%2Fsegnalazione-reati-minori-italia.jpg&w=1920&q=85)
Il rapporto redatto dal dipartimento di Pubblica sicurezza ci dice che, a parte una significativa oscillazione dovuta alla pandemia, i numeri sono sostanzialmente stabili: dal 2017 al 2023 il numero di minori denunciati o arrestati ogni anno si aggira sempre intorno ai 30mila.
Al contempo, l’opinione pubblica sembra avere una percezione diametralmente opposta: sottoposti a un sondaggio a cui hanno partecipato 257 persone, più dell’82 per cento dei partecipanti ha sostenuto che il fenomeno delle baby gang è in aumento.
Chi fa parte delle «baby gang» è sempre di «seconda generazione»?
Nell’immaginario collettivo la parola baby gang si associa a un’estetica molto precisa: un ragazzo afrodiscendente di seconda generazione vestito da «maranza», col «completo tarocco» e la «faccia made in Marocco» come canta Baby Gang nella canzone Marocchino.
Il termine «maranza» era molto in voga negli anni Novanta, e nel linguaggio colloquiale (soprattutto del Nord Italia) indicava «discotecari» e «tamarri». Negli ultimi anni l’espressione ha invece acquisito un connotato razziale piuttosto marcato, sancito peraltro da una narrazione giornalistica che associa il termine al concetto di «Islam violento».
Inoltre, la correlazione tra baby gang e seconde generazioni è stata recentemente ribadita anche da Matteo Salvini. «C’è un problema drammatico su queste benedette seconde generazioni, sulle “baby gang” di figli di cittadini stranieri, ragazzi nati in Italia, ma che non si sentono parte di questo Paese», ha detto nel novembre del 2024.
Ma davvero i figli delle persone immigrate tendono a delinquere di più e animano le gang giovanili?
Nel rapporto di Transcrime citato in precedenza si spiega che «le gang giovanili rilevate sono principalmente composte da meno di 10 individui, in prevalenza maschi e con un’età compresa tra i 15 e i 17 anni». Nella maggior parte dei casi, aggiunge, «i membri delle gang giovanili sono italiani, mentre gruppi formati in maggioranza da stranieri o senza una nazionalità prevalente sono meno frequenti».
Chiaramente, queste caratteristiche sono influenzate da vari fattori socio-economici e quindi variano a seconda delle diverse aree del Paese. Ad esempio, «le gang giovanili composte in prevalenza da stranieri di prima o seconda generazione sono più frequenti nel Nord del Paese rispetto alla media nazionale. Mentre situazioni socioeconomiche di marginalità e disagio sono evidenziate in prevalenza nelle regioni del Sud».
![](/_next/image?url=%2Fwp-content%2Fuploads%2F2025%2F02%2Fmappa-gang-giovanili-italia.jpg&w=1920&q=85)
Ogni contesto è a sé stante: a ribadirlo è anche Franco Prina, docente di sociologia all’Università degli Studi di Torino e autore del saggio Gang giovanili. Nel suo libro, oltre a contestare l’uso della definizione baby gang, Prina contesta anche l’idea che tutti i ragazzi che fanno parte di questi gruppi siano di seconda generazione.
Nella realtà della periferia torinese, ha spiegato in un’intervista a Linkiesta, c’è «un mix nel quale convivono fianco a fianco famiglie straniere e italiane che condividono condizioni di precarietà economica e difficoltà lavorativa. I figli di queste famiglie hanno difficoltà a integrarsi e a scuola, e genitori che faticano a svolgere il loro ruolo». Ovviamente, precisa Prina, chi viene da altri Paesi ha difficoltà supplementari. In particolare, per le seconde generazioni c’è sempre il rischio di non vedersi riconoscere i propri diritti o essere soggetti a discriminazioni razziali.
Tra l’altro, come ha notato il sociologo Stefano Allievi, parliamo delle «prime generazioni di neo-autoctoni: figli di immigrati, nati in Italia, ma per lo più non cittadini italiani, perché siamo il Paese con la legge sulla cittadinanza più restrittiva d’Europa. Quindi non hanno gli stessi diritti dei nostri figli».
Schiacciare tutto il fenomeno del disagio giovanile sotto un’altra definizione ombrello, ossia «seconda generazione», rischia ancora una volta di fare confusione e di prestare il fianco alla propaganda xenofoba, che trova terreno fertile per normalizzare e promuovere concetti di estrema destra come quello della «remigrazione».
Che rapporto c’è tra la trap e le «baby gang»?
Spesso e volentieri la musica trap è accusata di deviare i giovani e di incoraggiarli a commettere azioni criminali. Ma si tratta, anche in questo caso, di un falso mito.
Cosimo Sidoti, ricercatore e autore del paper Not all that glitters is gold, incuriosito dalla tendenza di molti trapper italiani a definirsi «gang», ha studiato il ruolo che la musica trap ha nell’aggregazione sociale e se questa può sfociare nell’azione violenta.
I risultati della ricerca etnografica di Sidoti sono chiari: la stragrande maggioranza degli artisti trapper italiani con cui ha parlato si ispirano a fatti veri o inventati delle gang estere, e da lì hanno creato a tavolino i loro «personaggi criminali».
«Il legame tra trapper italiani e gang esiste solo sul piano simbolico» ha raccontato il ricercatore a Facta. Ciò che gli artisti definiscono «gang» non è altro che «il gruppo di amici con cui hanno iniziato a produrre musica». È tutto «caricaturale», prosegue, «sia il personaggio che hanno costruito sia lo stile di vita che raccontano di condurre nei testi delle loro canzoni: anche se nei video alcuni di loro mostrano di saltare sulle macchine della polizia o di pisciare sui verbali, nella vita vera non fanno nessuna di queste azioni».
In questo senso, ha spiegato a Facta Elena Picco, educatrice minorile che lavora nella parte settentrionale di Torino, un ruolo importante lo gioca «la ricerca dell’identità» perché molti ragazzi tendono a «definire il proprio gruppo di amici “gang” per fidelizzare nel linguaggio il rapporto che si è instaurato tra di loro».
Parlare di «baby gang», quindi, rischia di essere doppiamente controproducente: da una parte, chi non fa parte di una gang giovanile è orgoglioso di sentirsi chiamare così in nome di un’identità ricercata; dall’altra, chi fa davvero parte di una gang giovanile rifiuta questa etichetta perché non ha alcun interesse di validare agli occhi altrui (soprattutto quelli delle forze dell’ordine) la convinzione di far parte di un gruppo dedito a attività criminali.
Per comprendere il fenomeno, quindi, non bisogna basarsi solo sulle parole dei ragazzi. Molti di loro sono pronti a definirsi «gang» solo perché passano il tempo sulle panchine del quartiere ad ascoltare la trap.
C’è poi un’ultima considerazione da fare quando si parla di trap, baby gang e linguaggio: il modo in cui ci si approccia alle definizioni calate dall’alto. Il trapper Zaccaria Mouhib ha risemantizzato l’espressione «baby gang», decidendo di appropriarsi di un’accusa che gli è stata rivolta e di usarla come una rivendicazione.
Non è raro che una parola pensata come intrinsecamente negativa (pensiamo a «puttana» per le sex worker) venga risignificata dalle persone a cui, quella parola, è rivolta. Non a caso, in una delle sue prime interviste rilasciata a Noisey Italia, Mouhib ha spiegato le origini del suo nome e il motivo che lo ha spinto a adottare “baby gang” per la sua carriera di rapper: «Baby è stato un soprannome che mi hanno dato fin da piccolo anche prima che cantavo. Quando facevo danni i giornali pensavano che era una baby gang, pensavano che era un gruppo di ragazzi invece ero solo io che ne combinavo, ne combinavo sempre…capito?».
La soluzione per risolvere il problema «baby gang» è il carcere?
Come sempre accade di fronte a problemi di ordine sociale, la risposta politica è quasi sempre la stessa: inasprire le pene. Per dare dei segnali ai cittadini, e per dimostrare che c’è l’interesse politico di occuparsi di un problema specifico, i governi emanano decreti ad hoc che vengono battezzati dai giornali e dai partiti con il nome del comune in cui si è verificata un’azione criminale, la stessa che la politica vuole punire e fermare.
Un caso eclatante riguarda una vicenda di cronaca legata agli abusi sessuali su due bambine di 10 e 12 anni nel quartiere Parco Verde di Caivano (provincia di Napoli) emerso alla fine di agosto del 2023. Sull’onda del clamore e dell’indignazione, il governo Meloni ha approvato il cosiddetto «decreto Caivano», ribattezzato dai giornali «decreto anti-baby gang».
In realtà, la parola «baby gang» non compare mai nel testo della norma. Tuttavia, come ha sottolineato il coordinatore dell’osservatorio sul carcere dell’associazione Antigone Michele Miravalle, l’articolo 5 della relazione tecnica di accompagnamento del decreto riconosce l’esistenza delle «baby gang» perché allarga la possibilità di estendere a minori di 14 anni misure amministrative come l’ammonimento del questore e il daspo urbano.
In generale, il decreto ha reso molto più facile ricorrere alla custodia cautelare negli Istituti penali per minorenni (IPM) italiani. Secondo un rapporto stilato da Antigone a un anno dall’approvazione della norma, le modifiche hanno profondamente peggiorato il sistema penitenziario minorile che – a differenza di quello per gli adulti – era invidiato da tutta Europa per il suo approccio rieducativo e non repressivo.
Il dato più significativo riguarda gli ingressi: al 15 settembre del 2024 erano 569 i ragazzi e le ragazze detenuti negli IPM. Numeri così alti, dice Antigone, non si erano mai registrati prima: in appena un anno c’è stato un incremento degli ingressi del 16,4 per cento.
![](/_next/image?url=%2Fwp-content%2Fuploads%2F2025%2F02%2Fingressi-ipm-italia.jpg&w=1920&q=85)
Nel rapporto, inoltre, viene confrontato il numero degli ingressi in carcere minorile con quello delle denunce. «Contrariamente all’idea diffusa delle cosiddette “baby gang” come un’invasione di minori devianti e criminali, soprattutto a causa della presenza di ragazzi stranieri descritti come privi di controllo, i dati dimostrano una realtà diversa», si legge. «Nel 2023, infatti, i ragazzi denunciati e/o arrestati sono diminuiti del 4,15% rispetto al medesimo dato raccolto nel 2022». Anche se le denunce diminuiscono, insomma, c’è più probabilità che un ragazzo denunciato finisca in un istituto penitenziario.
L’allarme, quindi, non riguarda le baby gang ma il carcere. «Non avevamo mai visto nulla di simile», dice la prima frase del rapporto stilato da Antigone. «Nonostante la nostra lunga esperienza nel monitoraggio delle carceri italiane, è la prima volta che troviamo un sistema minorile così carico di problemi e denso di nubi».
L’obiettivo, chiosa Antigone, sembra essere quello della «neutralizzazione». Il messaggio implicito di certa propaganda, da cui poi derivano norme come il “decreto Caivano”, è il seguente: «non reintegrateli in società, noi qui fuori non li vogliamo: teneteveli voi. Seppelliteli sotto litri di psicofarmaci e cumuli di altri anni di carcere».
- Da dove viene la storia di Rose Villain secondo cui non siamo mai stati sulla LunaDa dove viene la storia di Rose Villain secondo cui non siamo mai stati sulla Luna
- Gli articoli di fact-checking sono tra le prime fonti citate nelle Community Notes di XGli articoli di fact-checking sono tra le prime fonti citate nelle Community Notes di X