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Pandemie, teorie del complotto e virus usciti dal laboratorio: una storia che si ripete

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6 ottobre 2020
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Nelle ultime settimane si è tornati al parlare della possibilità che il nuovo coronavirus Sars-Cov-2 abbia origini artificiali e sia nato in laboratorio. A supporto della teoria viene spesso citato il cosiddetto “Yan Report”, uno studio realizzato da una virologa cinese Li-Meng Yan e reso pubblico il 14 settembre 2020.

La notizia, di diffusione internazionale, è arrivata anche in Italia: ripresa, tra gli altri, da Matteo Salvini e argomento di dibattito in diverse trasmissioni televisive – Presa diretta (Rai3) nella prima parte della puntata del 14 settembre, Quarta Repubblica (Rete4) il 28 settembre (da 1h 50’), e Fuori dal Coro (Rete4) il 29 settembre (qui da 2h43’).

Sebbene le evidenze scientifiche siano del tutto compatibili con un virus di origine naturale, l’idea che all’origine della pandemia da Covid-19 ci sia un errore di laboratorio, se non addirittura un’opera di ingegneria genetica, era già circolata fin da gennaio 2020 (ce ne siamo occupati qui e qui). La frequenza con cui teorie simili si diffondono desta sospetti e, come vedremo, ci sono davvero stati in passato casi di virus sfuggiti da un laboratorio.

Ma non è andata così con Sars-Cov-2.

Tra esempi di virus sfuggiti al controllo e teorie del complotto rivelatesi infondate, cerchiamo di capire perché lo Yan Report sembra essere uno strumento più politico che scientifico e spieghiamo, ancora una volta, perché la pandemia in atto è di origine naturale.

La teorie di un virus costruito in laboratorio sono una costante

Teorie del complotto e pandemie vanno a braccetto da sempre. Facciamo un salto nel passato per rendercene conto: durante la peste nera tra 1348 e 1351, numerosi ebrei vennero accusati di diffondere la peste e per questo sterminati in Spagna, Germania, Paesi Bassi e altri Paesi europei, spesso al rogo.

Alessandro Manzoni, nel capitolo XXXI dei Promessi sposi, scrisse che nel 1629 «era venuto un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo ch’erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all’erta, se mai coloro fossero capitati a Milano». Durante la pandemia di influenza spagnola del 1918 si fece strada invece l’idea che spie tedesche (era, ricordiamo, la fine della prima guerra mondiale) diffondessero il virus nel porto di Boston.

Dunque, le ipotesi di un virus costruito in laboratorio non sono altro che la versione biotecnologica della tendenza ad additare colpevoli politicamente utili, oltre che cognitivamente rassicuranti. Non a caso, sono apparse in pressoché tutti i casi recenti di epidemia o pandemia, a volte con espliciti obiettivi politici.

Il caso più eclatante è stato forse l’Operazione “Denver” messa in piedi negli anni ‘80 dai servizi segreti di Unione Sovietica e Germania Est, Kgb e Stasi, con l’obiettivo di convincere il pubblico che il virus Hiv fosse il risultato di esperimenti militari statunitensi al centro di ricerca di difesa dalle armi biologiche di Fort Detrick, in Maryland.

In questa operazione di disinformazione ebbero un ruolo chiave i biologi russo-tedeschi Jakob e Lilli Segal che stilarono una brochure (AIDS—Its nature and origin) distribuita al Summit dei Paesi Non-Allineati di Harare nel 1986, in cui argomentavano che Hiv sarebbe stato creato a partire da altri due virus con raffinate tecniche di ingegneria genetica (oggi sappiamo che Hiv è un virus di origine naturale, che circola almeno dal 1920).

Anche negli ultimi decenni le epidemie sono state spesso, se non sempre, accompagnate da ipotesi di virus artificiali e bioterrorismo. Durante l’epidemia di Sars del 2003 alcuni media avevano riportato l’ipotesi di un virus sfuggito da un laboratorio – incluse affermazioni attribuite al capo dei servizi epidemiologici russo, Nikolai Filatov, e al membro dell’Accademia di Medicina russo Sergei Kolesnikov – secondo cui il virus della Sars sarebbe stato creato in laboratorio a partire dai virus di morbillo e parotite (ipotesi insensata dal momento che i virus di morbillo e parotite non hanno alcun rapporto con i coronavirus come il virus della Sars del 2003, né quindi con SARS-CoV-2).

O, ancora, durante la pandemia di influenza H1N1 del 2009 (la cosiddetta “suina”), la ministra della Salute dell’Indonesia Siti Fadilah Supari aveva sostenuto che il virus poteva essere stato costruito in laboratorio per interesse delle case farmaceutiche (oggi sappiamo che si è originato probabilmente in Messico, dove virus simili circolavano da un decennio).

Nel 2014, poi, un articolo di opinione di sei medici greci pubblicato sul Journal of Molecular Biochemistry chiedeva di considerare l’ipotesi che l’epidemia di Ebola del 2014 in Africa occidentale potesse essere legata a ceppi di ebola modificati in laboratorio come armi biologiche. Cyril Broderick, professore di fisiologia vegetale associato alla Delaware State University, aveva pubblicato un articolo sul quotidiano liberiano Daily Observer in cui sosteneva che ebola fosse il risultato di esperimenti di bioterrorismo condotti dal Dipartimento della Difesa statunitense. Anche questa un’ipotesi confutata dalle ricerche sull’origine dell’epidemia.

In diverse occasioni insomma si sono diffusi casi di disinformazione collegati alla possibilità che un virus avesse un’origine artificiale quando, invece, non era così. Nella maggioranza dei casi, ipotesi di questo tipo sono accompagnate con la denuncia di una censura globale sul tema da parte delle istituzioni scientifiche ufficiali.

Ci sono anche casi in cui si è realmente diffuso un virus le cui origini non erano del tutto naturali. Come si è comportata, in quel caso, la comunità scientifica?

Come si comporta la scienza con le fughe di virus da laboratorio

In passato la comunità scientifica ha riconosciuto rapidamente i rari casi reali di fuoriuscita di virus da laboratorio, senza applicare la censura che sul tema viene spesso denunciata. Ne è esempio l’influenza russa del 1976, occasione in cui grazie all’analisi genomica del virus è stato possibile scoprire che probabilmente si trattava di un ceppo isolato nel 1950 e mantenuto in laboratorio: le analisi sono state pubblicate su Nature e confermate in seguito a partire dal 2009.

Precisiamo poi che il timore che virus pericolosi, naturali o ingegnerizzati artificialmente, possano uscire accidentalmente da un laboratorio – ipotesi spesso mossa negli scorsi mesi per Sars-Cov-2 – di per sé non è affatto assurdo. Sappiamo, anzi, che in passato è accaduto varie volte.

Oltre alla appena citata influenza del 1976, casi eclatanti furono la fuoriuscita del virus del vaiolo nel 1978 in un laboratorio di Birmingham (Regno Unito) a cui si deve l’ultimo decesso per vaiolo della storia, e i ripetuti episodi di infezioni da Sars sfuggito a laboratori asiatici, tra cui uno da un laboratorio di Pechino nell’aprile 2004, con nove infetti e un decesso. Come tale, l’argomento non è oggetto di censura – tanto più che sappiamo di questi episodi, anche quando hanno coinvolto regimi come la Cina – è anzi un rischio di cui i virologi e gli epidemiologi discutono apertamente da anni, con posizioni differenti ma senza “bavagli”.

Se ci fossero prove concrete di un’origine artificiale di un virus sarebbe assai improbabile che la comunità scientifica riuscisse a tenerle nascoste. Semplicemente, le prove a supporto di un’origine di laboratorio delle ultime epidemie e pandemie, inclusa la pandemia di Covid-19, sono nella migliore delle ipotesi estremamente deboli e di fatto uno strumento di disinformazione.

Il rapporto Yan

Nelle ultime settimane, a ravvivare l’ipotesi del virus creato in laboratorio, è emerso il cosiddetto Yan Report o “rapporto Yan”, pubblicato il 14 settembre 2020 e firmato dalla virologa cinese Li-Meng Yan e da altri tre autori dal nome cinese, di cui è difficile ricostruire l’identità e di cui non si trovano altre pubblicazioni sui coronavirus. Si tratta di un denso articolo scientifico di 26 pagine che, attraverso l’analisi del genoma di SARS-CoV-2, porterebbe evidenze alla tesi che il virus sia stato ingegnerizzato in un laboratorio militare.

L’articolo di Yan è stato pubblicato sulla piattaforma di preprint Zenodo e non sottoposto a formale peer review, ovvero a un controllo da parte di altri ricercatori prima della pubblicazione. L’assenza di questo passaggio è già un primo campanello d’allarme.

Dell’autrice Li-Meng Yan sappiamo poco, ma sicuramente era affiliata all’Università di Hong Kong e aveva già pubblicato studi non controversi su SARS-CoV-2 in riviste scientifiche prestigiose, come Lancet Infectious Diseases e Nature. Come tale sembra quindi essere una fonte di per sé potenzialmente interessante ed affidabile.

Li-Meng Yan, virologa cinese autrice del report

Il report di Li-Meng Yan e colleghi sembra però sbriciolarsi dal punto di vista scientifico. Ecco perché.

Che cosa non funziona stavolta nella tesi di SARS-CoV-2 in laboratorio?

Il consenso dei ricercatori esperti in genetica molecolare che hanno analizzato lo Yan Report è che la tesi non stia in piedi. Riassumendo brevemente, lo Yan Report vuole dimostrare che i parenti più affini di SARS-CoV-2 siano ZC45 e ZXC21, due coronavirus dei pipistrelli identificati nel 2018 dai laboratori militari del Third Military Medical University e del Research Institute for Medicine of Nanjing Command. Una serie di argomentazioni circostanziali indicherebbe poi, secondo Yan e coautori, che questi due virus siano l’ossatura da cui è stato costruito, tramite ingegneria genetica, SARS-CoV-2 e l’articolo giunge addirittura a delineare una possibile “ricetta” con cui SARS-CoV-2 sarebbe stato costruito.

La tesi che i due virus identificati dai laboratori militari cinesi siano all’origine di SARS-CoV-2 si scontra col fatto che ci sono almeno altri due virus selvatici geneticamente più vicini a SARS-CoV-2, RaTG13 e RmYN02. L’esistenza di questi due virus invalida completamente l’argomento di Yan, perché significa che in natura esistevano già virus più simili a quelli che, secondo Yan, i militari cinesi avrebbero usato per costruire il virus responsabile della Covid-19. In altre parole, gran parte delle caratteristiche che Yan attribuisce a un virus artificiale esistevano già in virus isolati in natura, di cui almeno uno scoperto dopo lo scoppio della pandemia e che quindi non può aver avuto un ruolo nel costruirla in laboratorio.

Il report decide dunque di ignorare completamente RmYN02 (la cui scoperta è stata pubblicata a giugno 2020, abbondantemente in tempo per tenerne conto in un preprint uscito a settembre) e punta tutto sull’idea che RaTG13 sia un falso. Idea sostenuta esclusivamente da letteratura scientifica debole: secondo l’analisi del Center for Health Security della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, che affronta in modo puntuale tutto il report Yan, tra gli articoli citati a sostegno nessuno è stato scritto da esperti in genetica virale o in coronavirus e solo due sono stati pubblicati dopo aver passato la peer review. Di questi due, seppure cautamente dubbiosi su un’origine naturale di SARS-CoV-2, nessuno confuta direttamente la genuinità di RaTG13: uno, sebbene sospetti una possibile evoluzione in laboratorio, non ipotizza una costruzione artificiale di SARS-CoV-2, mentre l’altro si limita a porre alcune questioni sul genoma virale.

Qui è però necessario aprire una piccola parentesi, dal momento che RaTG13 ha una storia piuttosto confusa e complicata, legata ad alcune reticenze della letteratura scientifica cinese, che ha alimentato i sospetti.

RaTG13 è infatti uno di vari coronavirus isolati tra il 2012 e il 2013  in una miniera di rame nella provincia di Yunnan (Cina) e poi descritti nel 2016. All’epoca il virus era stato chiamato con il nome di BtCoV/4991 mentre è stato rinominato RaTG13 in un articolo di Nature in cui nel 2020 viene chiamato in causa. L’articolo di Nature stranamente non citava l’articolo del 2016. Esiste inoltre il sospetto che i coronavirus scoperti nella miniera siano stati causa della morte di tre minatori nel 2012 – il che avrebbe fatto partire le analisi di campioni virali nella miniera –  circostanza non descritta nella letteratura scientifica peer reviewed ma riportata in almeno una tesi di dottorato e una tesi di laurea. Questa mancanza di trasparenza ha effettivamente posto dei dubbi nella comunità scientifica, esposti a luglio dalla rivista Science; una risposta è stata data qui su Science da Shi Zengli, virologa e leader del team che ha isolato e sequenziato sia RaTG13, sia il coronavirus responsabile della pandemia.

Un altro dubbio posto dal report è che l’informazione genetica grezza di RaTG13 disponibile sui database non sia sufficiente per ricostruire un genoma virale completo. Il genetista molecolare Marco Gerdol dell’Università di Trieste ha dichiarato di aver direttamente confutato questo dubbio, riuscendoci: «non bisogna confondere l’incapacità tecnica di chi ha provato ad eseguire l’assemblaggio con l’impossibilità di assemblare il genoma per mancanza di dati, perché qui ricadiamo clamorosamente nel primo caso […]. Ho personalmente provato ad assemblare il genoma RaTG13 […] ottenendo con successo una sequenza completa […] Insomma, è possibile assemblare il genoma di RaTG13 partendo dai dati grezzi: basta avere le competenze per farlo».

Un report poco accurato

Al di là dell’origine di RaTG13, ci sono altri aspetti che rendono il rapporto Yan poco affidabile. Come hanno fatto notare numerosi ricercatori – ad esempio Ralph Baric, uno dei massimi esperti mondiali di coronavirus nell’intervista a PresaDiretta del 14 settembre 2020, ma anche il genetista Kristian G. Andersen – i virus ‘vicini’ a SARS-CoV-2 come quelli indicati da Yan come “scheletro” di una costruzione artificiale ne differiscono comunque per migliaia di mutazioni. Questo è esattamente quanto ci si attende da virus originati da un progenitore comune e poi evolutisi indipendentemente, mentre non ha alcun senso per un costrutto artificiale. Come sostenuto nell’analisi già citata della Johns Hopkins, «non viene data nessuna spiegazione per come sarebbero state prodotte le oltre tremila differenze di sequenza tra SARS-CoV-2 e ZC45: questo processo sarebbe assai complesso per un’ingegneria deliberata».

Lo Yan Report inoltre insinua che una caratteristica cruciale di SARS-CoV-2, ovvero il sito di taglio per la furina sulla proteina Spike (senza entrare in dettaglio: una caratteristica molecolare che ne aumenta significativamente l’infettività), sia unica tra i coronavirus e quindi di possibile origine artificiale, mentre invece esiste già in altri coronavirus, come HCoV-OC43, HCoV-HKU1 e MERS-CoV.

Per chi volesse saperne di più, un’analisi molto chiara è stata fornita dal genetista dell’Università di Trento Marco Gerdol in due lunghi post su Facebook, il cui contenuto è stato poi riproposto in un’intervista dai colleghi di Open. Abbiamo già citato una risposta scientifica che affronta il report punto per punto, resa disponibile dal Center for Health Security della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health. Altri ricercatori – tra cui Robert Gallo, uno dei virologi scopritori di HIV – hanno condotto una peer review pubblica del report ospitata dal MIT, giungendo ad analoghe conclusioni.

Perché allora è uscito il rapporto Yan?

Nel report, Li-Meng Yan e colleghi dichiarano di essere affiliati alla Rule of Law Society & Rule of Law Foundation, che hanno sede a New York. Non istituti scientifici ma associazioni no profit guidate da Steve Bannon, l’ex consigliere di Donald Trump alla Casa Bianca, con posizioni vicine all’estrema destra e da sempre ostile alla Cina, e finanziata da Guo Wengui, miliardario cinese che vive negli Stati Uniti dal 2015. Wengui è personaggio assai ambiguo, dalla biografia oscura (neppure il nome è accertato): potente uomo d’affari in Cina finché non è stato accusato di corruzione intorno al 2015, ha dichiarato di aver svelato a sua volta una enorme rete di corruzione nel Partito Comunista Cinese. L’interesse comune di Bannon e Wengui è combattere l’attuale regime cinese, come dichiara esplicitamente il sito della Rule of Law Society. Li-Meng Yan era in contatto con Bannon già da prima del report: a luglio, per esempio, era stata ospite sul suo podcast War Room.

Come conclude la peer review pubblica ospitata dal MIT, le affermazioni dello Yan Report sono «spiegate meglio da motivazioni politiche che da rigore scientifico». Questo non deve stupire, perché la funzione di propaganda geopolitica – come visto sopra – accomuna gran parte delle teorie sull’origine artificiale di SARS-CoV-2.

Fin dai primi giorni di gennaio infatti erano circolate teorie del complotto simmetriche da parte cinese, che accusavano gli Stati Uniti di aver creato e fatto circolare il coronavirus. Teorie rilanciate anche da funzionari del governo di Pechino, come dimostrano i tweet di Lijian Zhao, portavoce del Ministero degli Esteri.

Nel Medio Oriente sono state diffuse teorie che vedono il coronavirus opera di un piano legato a Israele. In Iran, per esempio, il sito di informazione governativo Press TV ha diffuso l’ipotesi che SARS-CoV-2 sia parte di una «guerra biologica su larga scala» appoggiata da Israele.

In conclusione

Come abbiamo visto, l’ipotesi di un virus creato in laboratorio e diffuso da potenze straniere è un motivo ricorrente durante ogni epidemia o pandemia, spesso originato e fomentato a scopi geopolitici. Di per sé è corretto che la comunità scientifica verifichi la possibilità – rara ma non impossibile – di uno spillover da laboratorio. Se questa ipotesi, però, non è supportata da robuste evidenze scientifiche, la storia ci insegna che probabilmente si tratta di un tentativo di disinformazione.

Il caso dello Yan report e del nuovo coronavirus Sars-Cov-2 sembra confermare la regola: a dispetto dell’aspetto “scientifico” del report, i suoi argomenti sono considerati – al momento – non validi dalla comunità scientifica di riferimento. Il report non è inoltre stato prodotto da un istituto di ricerca indipendente, ma da un istituto dagli espliciti fini geopolitici.

Le cause delle pandemie, inclusa l’attuale, sono per ora da ricercare nella naturale evoluzione dei patogeni. Se vogliamo cercare una responsabilità umana, possiamo trovarla nel modo in cui l’espansione della nostra civiltà altera la biosfera e ci mette in contatto con i virus che si evolvono in essa. Una realtà forse meno cinematografica e più complessa di un piano bioterroristico, ma assai più concreta e su cui dovremmo concentrare i nostri sforzi.

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