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Che cosa dice la scienza sull’obbligo delle mascherine all’aperto

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13 ottobre 2020
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Mercoledì 7 ottobre 2020 il governo Conte II ha approvato il decreto legge che ha introdotto, a partire dal giorno successivo, l’obbligo di tenere sempre con sé la mascherina – in quanto dispositivo di protezione individuale per contrastare il diffondersi della Covid-19 nel Paese – e di indossarla in tutti i luoghi chiusi eccetto le abitazioni private (anche se il presidente del Consiglio le ha fortemente raccomandate in caso si viva con anziani o si ricevano in casa persone non conviventi).

L’obbligo ora scatta, se si è vicini a persone non conviventi, anche all’aperto, come era accaduto durante la cosiddetta “fase 2”. Sono esclusi i soggetti che stanno praticando attività sportiva, i bambini sotto i sei anni e chi soffre di patologie o ha delle disabilità incompatibili con l’uso della mascherina. Una normativa, su questo punto, simile a quella in vigore in Lombardia fino al 31 luglio, che però ha oggi portata nazionale. Insieme alle nuove regole sull’utilizzo delle mascherine, il Dpcm del 13 ottobre include poi l’obbligo della distanza di sicurezza, il divieto di feste private, la forte raccomandazione di limitare ricevimenti oltre le sei persone non conviventi e chiusure anticipate per bar e ristoranti.

Ma torniamo a noi: le mascherine di per sé possono sembrare un presidio di salute pubblica troppo debole e inefficace. Eppure da un lato sono diventate in molti Paesi, come l’Italia, ma anche gli Stati Uniti e la Germania, un tema ideologicamente polarizzato, che divide tra chi le ritiene uno strumento fondamentale per combattere la pandemia, chi invece grida a una presunta «dittatura sanitaria» o addirittura chi crede siano dannose.

Dal punto di vista scientifico, è un tema assai più complesso di quanto sembri: su questi semplici pezzi di stoffa, almeno in apparenza, non sappiamo in realtà tutto quello che vorremmo. Vediamo quindi di capire se il provvedimento del governo Conte II è supportato dai dati scientifici, e in generale di avere le idee più chiare su uno degli oggetti simbolo della pandemia.

Che cosa dicono i dati sulle mascherine, in generale

Che le mascherine servano a contenere il contagio può sembrare una banalità di buon senso. Per la scienza, invece, è una questione assai difficile da definire.

Innanzitutto, come ormai gran parte dei lettori già sapranno, non esiste un solo tipo di mascherina: si va da quelle ad alta performance, come le FFP2 o N95, progettate per filtrare il 95 per cento delle particelle con dimensione mediana di 0,5 micrometri, alle mascherine in tessuto fatte in casa. Non tutti però indossano o si prendono cura delle mascherine in modo appropriato, ad esempio riutilizzandole troppe volte, non coprendo il naso o toccandole spesso per aggiustarle sul viso. Pratiche di questo tipo vanno ad intaccare sull’efficacia concreta che hanno i dispositivi.

Purtroppo, durante una pandemia non c’è modo né tempo di fare studi epidemiologici con calma e rigore, ed è difficilissimo districare quale effetto abbiano avuto le mascherine rispetto ad altri interventi come il distanziamento sociale e i lockdown. Fino a pochi mesi fa i dati erano anzi così pochi e confusi che molti esperti mettevano in guardia dall’uso collettivo delle mascherine, chiedendo di limitarle solo agli operatori sanitari. Non solo per assicurarsi che gli ospedali non le esaurissero, ma anche perché c’era il timore di un effetto paradossale: la paura che alla mascherina si accompagnasse un senso di falsa sicurezza in chi le indossa, inducendo comportamenti a rischio. O, peggio, che potessero diventare veicolo di contagio se toccate o indossate male.

Ad oggi non abbiamo singoli studi autorevoli che garantiscano in modo incontrovertibile l’efficacia delle mascherine. Mesi dopo l’inizio della pandemia si stanno però accumulando una serie di evidenze che puntano tutte nella stessa direzione: le mascherine sembrano aiutare davvero a ridurre il contagio, come ha riassunto l’8 ottobre la rivista scientifica Nature.

Ci sono due linee di evidenze scientifiche. La prima si chiede se, fisicamente, le mascherine siano in grado di ridurre la diffusione delle goccioline e specialmente degli aerosol che sembrano tra i principali mezzi di diffusione del coronavirus SARS-CoV-2. Qui i dati, seppur preliminari, sono abbastanza chiari e rassicuranti. Praticamente tutti i tipi di mascherina, sia pure con efficacia diversa, sembrano infatti capaci di ridurre in modo sostanziale la diffusione di aerosol e di goccioline (come emerso da diversi studi qui, qui e qui). In particolare FFP2/N95 e chirurgiche tendono a essere migliori, ma anche le mascherine di stoffa – meglio se multistrato – sono un discreto filtro, in mancanza di altro.

Esempio di risultati da uno studio sull’efficacia delle mascherine nel fermare goccioline di saliva infettive. (Fischer et al. Science Advances, 2 settembre 2020) Il grafico riporta la proporzione di goccioline che passano rispetto a nessuna mascherina (punto in verde). Più piccolo il numero, migliore la protezione. Le N95 (equivalenti alle FFP2) e le chirurgiche sono le più efficaci, ma anche le mascherine in cotone sembrano offrire protezione parziale, seppur inferiore.

Test su criceti condotti all’Università di Hong Kong e pubblicati a maggio 2020 hanno inoltre mostrato che, se gli animali sono separati da barriere del materiale di cui sono fatte le mascherine chirurgiche, la trasmissione del virus SARS-CoV-2 responsabile della Covid-19 si riduce dal 66 per cento al 25 per cento degli individui.

In generale, anche se gli studi sul tema non sono ancora del tutto conclusivi, sembra sempre più chiaro che le mascherine siano capaci di ridurre le goccioline e aerosol con cui si diffonde il coronavirus.

Fuori dal laboratorio

La vera prova del nove è vedere però se le mascherine funzionano nel mondo reale e quindi fuori dai laboratori, dove le condizioni non sono ideali e non tutti usano le mascherine in modo corretto. Qui, come ha dichiarato a Nature l’epidemiologa Kate Grabowski, parte del gruppo di lavoro sulla Covid-19 nell’unità di Dinamica delle Malattie Infettive della Johns Hopkins School of Public Health di Baltimora (Stati Uniti), «nessuno studio è definitivo, ma [gli studi] presi tutti insieme mi convincono che [le mascherine] funzionino».

Le meta-analisi – ovvero analisi che raccolgono le evidenze di diversi studi individuali e le mettono insieme in modo statisticamente rigoroso – suggeriscono, sia pure in modo non robustissimo, l’efficacia delle mascherine anche fuori dai laboratori, sia verso gli altri sia per chi le indossa. Si veda per esempio una meta-analisi pubblicata nel 2017 riguardante vari virus respiratori (tra cui il coronavirus della Sars, parente stretto del SARS-CoV-2), e una meta-analisi del 2020 pubblicata da Lancet, riguardante i coronavirus responsabili di Sars, Mers e Covid-19.

A fine marzo 2020, durante un focolaio di Covid-19 a bordo della portaerei americana USS Theodore Roosevelt, è risultato infetto il 56 per cento di chi indossava la mascherina contro oltre l’80 per cento di chi non lo faceva. Confrontando le politiche sulle mascherine di quindici Stati americani, un’analisi di HealthAffairs ha trovato una riduzione percentuale nel tasso di crescita della pandemia correlata all’obbligo di mascherina. Gli autori stimano che gli obblighi potrebbero aver evitato almeno 200.000 casi di Covid-19 entro il 22 maggio 2020. Al contrario, il fenomeno per cui le mascherine possano indurre un senso di falsa sicurezza sembra oggi non essere significativo come temuto all’inizio.

Le mascherine potrebbero inoltre ridurre non solo il numero di contagiati, ma anche la gravità dei sintomi, come suggerito da alcuni dati epidemiologici e dagli esperimenti effettuati sugli animali. L’ipotesi è che riducendo la quantità di aerosol e goccioline si riduce la quantità di virus in ingresso e il sistema immunitario si ritrova ad avere meno “nemici” da affrontare alla partenza.

Quanto è facile infettarsi all’aperto?

Gli studi concordano sull’utilità delle mascherine in luoghi chiusi e poco arieggiati, gli stessi dove gli aerosol che propagano il virus possono restare nell’aria e dove è difficile mantenere altre misure come il distanziamento. Ma all’aperto, ne abbiamo davvero bisogno?

Finora i dati sembrano indicare che raramente ci si infetta all’aria aperta. Un’analisi di 201 focolai pubblicata dal Wellcome Trust (ente di beneficenza attivamente impegnato nella ricerca biomedica) ha identificato solo un tipo di situazione non affollata all’aperto (come, ad esempio, degli operai all’interno dei cantieri) in cui si sia effettivamente diffusa l’infezione, con 4 focolai su 201. Un preprint dell’Università di Hong Kong, pubblicato il 7 aprile 2020, ha identificato 318 focolai, di cui solo uno è stato correlato con sicurezza a un’infezione all’aperto (una conversazione tra due amici). Casi noti di diffusione del virus all’aperto sono avvenuti altrimenti solo in situazioni di forte affollamento e contatto sociale, come il focolaio del carnevale tedesco a Gangelt o l’evento della Casa Bianca per festeggiare la nomina di Amy Coney Barrett alla Corte Suprema, dove è stato infettato con ogni probabilità anche il presidente americano Donald Trump.

Anche qui le evidenze sono ancora parziali, ma puntano in modo chiaro in direzione di una relativa sicurezza all’aperto, se non c’è affollamento.

Secondo un rapporto sulle evidenze scientifiche riguardanti le mascherine, pubblicato ad agosto 2020 dalla fondazione Gimbe (Gruppo Italiano per la Medicina Basata sull’Evidenza), «considerato che solo una piccola percentuale della trasmissione del virus avviene all’aperto, non è opportuno raccomandare l’obbligo di mascherina all’aperto. Rimane, soprattutto durante la stagione estiva, la difficoltà di definire le situazioni a rischio quando non si riesce a mantenere la distanza minima di un metro, escludendo ovviamente gli assembramenti, formalmente vietati». Vista la difficoltà di contagiarsi all’aperto in situazioni non affollate, obbligare alle mascherine all’aperto in tutte le situazioni, anche in una strada semideserta, sarebbe stato scientificamente difficile da giustificare.

In conclusione

Come abbiamo visto, ci sono sempre più evidenze che le mascherine siano efficaci per contenere la diffusione del contagio. Incoraggiarne l’uso in presenza di altre persone, anche all’aperto, può essere d’aiuto. In questo senso il decreto emanato di recente dal governo Conte II si muove in una direzione coerente con i dati scientifici, applicando un obbligo mirato alle situazioni di effettivo rischio e cercando di indurre i cittadini a usarle più spesso.

Se però la maggior parte dei contagi non avviene all’aperto, è plausibile che l’obbligo di mascherina all’aperto non avrà un grande impatto sulla diffusione della pandemia. Le mascherine da sole non sono risolutive se non accompagnate ad altre misure di sicurezza – quali il distanziamento o l’applicazione dello smart working ogni volta che sia possibile – specialmente per quanto riguarda ambienti chiusi e non aerati. Il rapporto Gimbe avverte di «un eventuale danno [che] potrebbe derivare dai datori di lavoro che considerano le mascherine come una protezione sufficiente per richiamare il personale sul posto di lavoro senza aver adattato le condizioni ambientali e le procedure in modo da garantire la sicurezza dei lavoratori».

In altre parole, è necessario evitare che le mascherine siano l’alibi per ritardare provvedimenti di sicurezza più incisivi, come maggiori capacità di tracciamento e isolamento, messa in sicurezza dei luoghi di lavoro dove possibile o, nei casi estremi, chiusure di luoghi in cui il contagio è più facile. Il Dpcm del 13 ottobre, introducendo misure che limitano ulteriormente le occasioni assembramento, va in questa direzione.

In conclusione, il decreto legge del governo Conte II è coerente con le evidenze scientifiche, ma le stesse evidenze ci dicono che l’obbligo di mascherina all’aperto difficilmente basterà a contenere la crescita della pandemia, se non associato agli altri provvedimenti e cautele.

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