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Possiamo evitare il lockdown isolando gli anziani?

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4 novembre 2020
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Tra fine ottobre e inizio novembre 2020 si è parlato molto dell’ipotesi di mitigare o scongiurare un nuovo possibile lockdown nazionale con un approccio più mirato: isolare le fasce di popolazione più anziane o comunque più a rischio se colpite dal Covid-19, e usare misure meno drastiche per tutti gli altri, per cui il virus non è così pericoloso. Una proposta che ha sollevato dubbi costituzionali, ma che apparentemente suona ragionevole.

In questo modo – questo il ragionamento dei sostenitori della proposta – una buona parte della popolazione potrebbe mantenere una vita più normale, la produttività economica sarebbe in larga misura garantita, e allo stesso tempo si potrebbero tutelare le fasce più colpite scongiurando il collasso del sistema sanitario.

Due proposte di questo tipo sono state portate avanti di recente in Italia: una il 27 ottobre su lavoce.info da Carlo Favero, Andrea Ichino e Aldo Rustichini (i primi due sono economisti, il terzo un matematico); un’altra il 30 ottobre da Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).

La stessa idea ha risuonato di recente a livello internazionale, in quanto parte essenziale della cosiddetta Great Barrington Declaration, una proposta basata sull’ipotesi pseudoscientifica (come abbiamo descritto) di contrastare l’epidemia sfruttando l’immunità di gregge.

Ma isolare gli anziani per scongiurare un nuovo lockdown generale è una prospettiva realistica? I più giovani potrebbero vivere normalmente? Al momento, sembra un’ipotesi poco plausibile e piena di rischi.

Le proposte fatte in Italia

Come prima cosa, analizziamo le due recenti proposte di cui si sta discutendo in Italia, che vorrebbero isolare, in modi diversi, il 30 per cento circa della popolazione italiana: gli over 60 in Italia sono infatti oltre 17.874.000 persone.

Lo studio Favero-Ichino-Rustichini

L’articolo di Favero, Ichino e Rustichini ha riproposto, in realtà, uno studio che è stato pubblicato dagli stessi autori sull’archivio online Ssrn – sotto forma di preprint, ossia non ancora sottoposto alla revisione della comunità scientifica – il 22 aprile 2020 e aggiornato il 23 giugno 2020.

Lo studio usa un modello matematico-epidemiologico piuttosto elaborato per confrontare le conseguenze sull’economia e sulla salute di varie politiche di contenimento, in Lombardia e in Veneto. In particolare, confronta un lockdown simile a quello di marzo-aprile 2020, dove tutti i lavoratori non essenziali erano a casa, con una politica in cui solo ai lavoratori oltre i 50 anni si impedisce di lavorare (tranne quelli essenziali), lasciando via libera a tutti gli altri lavoratori in tutte le industrie, essenziali e non.

Il modello si basa sulla prospettiva di un lockdown irrealisticamente lungo (di un anno, ipoteticamente fra 1 settembre 2020 e 31 agosto 2021), il che rischia di falsare la cifra dell’impatto economico. Ma, più importante, il modello mostra con chiarezza che questa «protezione mirata» non può sostituire le misure di lockdown completo, se l’obiettivo è salvare vite.

Nella previsione del modello, il lockdown dei lavoratori sopra i 50 anni – nel caso di infettività bassa e di risposta responsabile dei comportamenti – ha comunque l’effetto di causare un sostanziale aumento dei decessi tra settembre 2020 e agosto 2021 rispetto al lockdown completo: il modello prevede 19.710 morti  in Lombardia (contro 9.770 in caso di lockdown completo) e 920 morti in Veneto (contro 389 in caso di lockdown completo).

Come dicono gli autori stessi, i numeri assoluti previsti non sono di per sé affidabili, ma la previsione è di un netto aumento di mortalità complessiva. Il lockdown «mirato» risulta comunque in un non indifferente impatto economico (-9,4/-9,7 per cento del Pil) anche se ovviamente inferiore all’impatto economico di un lockdown globale (-25 per cento del Pil; ricordiamo che si riferisce all’ipotesi di un intero anno di lockdown).

A differenza della Great Barrington Declaration, gli autori rifiutano esplicitamente l’idea che il resto della popolazione possa raggiungere una significativa immunità di gregge; lo studio, anzi, mostra numericamente che questa immunità non si potrebbe ottenere. Una volta finito l’isolamento degli anziani, quindi, la popolazione resterebbe comunque vulnerabile.

La proposta di Villa

L’altra proposta è delineata invece in un articolo (non accademico) dell’Ispi, firmato dal ricercatore Matteo Villa. Mentre la proposta precedente si concentrava sui lavoratori, Villa ha argomentato che un isolamento selettivo di tutte le persone sopra varie soglie di età potrebbe evitare la maggior parte dei decessi e dei ricoveri.

Secondo l’articolo, in confronto a una situazione di libera circolazione di tutti, isolando completamente da tutto il resto della popolazione gli ultraottantenni si potrebbe evitare metà dei decessi, il 74 per cento dei decessi isolando gli ultrasettantenni e ben il 91 per cento dei decessi isolando gli over 60. Anche il numero delle terapie intensive occupate da pazienti Covid-19 si ridurrebbe di circa il 75 per cento in caso di isolamento completo degli ultrasessantenni.

Lo stesso articolo di Villa ha sottolineato con onestà una serie di questioni aperte. Innanzitutto l’isolamento selettivo, senza ulteriori provvedimenti, non ci eviterebbe una situazione tragica, ossia «un Sistema sanitario allo stremo, che dovrebbe per esempio accettare la sospensione delle operazioni chirurgiche che prevedano un periodo di recupero in terapia intensiva». Il lockdown selettivo sarebbe quindi una misura di supporto, non sostitutiva: «L’isolamento selettivo non sarebbe, da solo, una soluzione al problema della saturazione degli ospedali», ha scritto Villa, anche se «renderebbe ogni livello di contagio notevolmente più sostenibile».

Il problema principale però è la fattibilità. Come ha sottolineato lo stesso ricercatore di Ispi, «davvero un lockdown limitato alle fasce più anziane ne eviterebbe l’infezione? Ci sono molti dubbi al riguardo».

Da un lato Villa ha ammesso che un isolamento perfetto è probabilmente impossibile: man mano che il virus circola nella popolazione attiva, è sempre più facile che arrivi alla popolazione isolata tramite i sia pur pochissimi ma inevitabili contatti. In secondo luogo, sembra molto difficile isolare le persone anziane da quelle giovani, molto spesso familiari o badanti con cui convivono e che si prendono cura di loro. Anche ammettendo che tutti gli anziani siano autosufficienti e disposti ad accettare questa rottura dei nuclei familiari, l’isolamento degli ultrasessantenni implicherebbe l’isolamento di quasi 18 milioni di persone, poco meno di un terzo della popolazione italiana, il che sembra assai complesso dal punto di vista logistico: servirebbe creare in tempi molto brevi un’infrastruttura che porti a queste persone cibo e beni essenziali, per un lasso di tempo indefinito.

Insomma, tutto quello che ci dice la proposta di Villa è che, se solo potessimo isolare gli anziani in qualche modo dal resto del tessuto sociale, potremmo mitigare la pandemia, ma come ha ammesso lo stesso autore, da sola non è una soluzione alternativa al lockdown. E nessuno ha idea di come implementare con rapidità e sicurezza un isolamento sostanziale degli over 60.

Il caso della Svezia

Indizio della complessa fattibilità di queste politiche è il Paese dove è stato tentato quanto di più simile a una strategia di «protezione selettiva», ossia la Svezia, che con l’arrivo dell’epidemia ha applicato restrizioni molto leggere rispetto alla media europea e ha cercato di concentrare gli sforzi sugli anziani, per esempio vietando le visite nelle case di riposo.

Questa strategia non ha funzionato: oltre metà dei decessi da Covid-19 in Svezia è avvenuta proprio nelle strutture di assistenza agli anziani. Decessi, ricordiamo, di molto superiori rispetto agli altri Paesi scandinavi: come ha spiegato un’analisi pubblicata a ottobre scorso sulla rivista accademica Science, «l’impatto dell’approccio svedese è inconfondibile». Qui «oltre 94 mila persone sono state diagnosticate con Covid-19, e almeno 5.895 sono morte. Il Paese ha subito circa 590 morti per milione di abitanti – una cifra analoga ai 591 per milione degli Stati Uniti e 600 dell’Italia, ma molto superiori alle 50 per milione della Norvegia, 108 della Danimarca e 113 della Germania»

Lo stesso Ministero della Salute svedese ha dovuto ammettere che «abbiamo fallito nel proteggere i nostri anziani». Si può argomentare che la Svezia non abbia applicato un isolamento così ampio e rigoroso come chiesto dalle proposte precedenti, ma quantomeno possiamo dire che non abbiamo, al momento, evidenze concrete di un piano di isolamento selettivo funzionante.

Il consenso degli esperti

Come ha raccontato l’epidemiologo Luca Ferretti del Big Data Institute all’Università di Oxford, chi propone queste misure spesso sono economisti, politologi e matematici, ma non gli specialisti più qualificati in merito, ossia gli epidemiologi. Come tali, secondo Ferretti, ignorano che gli epidemiologi hanno già considerato e rigettato come impraticabile l’ipotesi dell’isolamento selettivo. L’isolamento relativo degli anziani è importante e fa parte della soluzione, ma da solo non è una misura capace di contenere la pandemia, e ha costi altissimi che vengono spesso dimenticati.

Su Science Media Centre – organizzazione no-profit del Regno Unito che mette in contatto scienziati e media – numerosi medici e ricercatori hanno commentato negativamente la proposta di «protezione focalizzata» contenuta nella Great Barrington Declaration, facendo notare come non vi sia alcuna prova che possa essere implementata con efficacia e che sarebbe difficile ottenere una protezione completa.

Il biostatistico Jonathan Read dell’Università di Lancaster ha dichiarato al quotidiano britannico The Guardian che «Proteggere i vulnerabili è stata parte della politica del Regno Unito fin dall’inizio del lockdown. Le morti degli anziani e di altri soggetti ad alto rischio, nelle case di riposo e nella comunità, anche dopo l’imposizione del lockdown a marzo, suggeriscono che una politica basata interamente sulla segregazione di una parte della società non andrà a finire bene».

Secondo la proposta di Villa, «risulta decisamente preferibile un isolamento “diffuso” sul territorio (ciascuno nella propria abitazione) rispetto a uno concentrato», proprio per evitare che un contagio accidentale di un soggetto a rischio generi un pericoloso focolaio proprio tra i più vulnerabili; ma è difficile capire come si possa isolare separatamente tra loro gli anziani già ricoverati in case di riposo o altre strutture di cura. Questi anziani inoltre sono a contatto con il personale che si prende cura di loro: bisognerebbe dunque isolare anche questo personale e non è chiaro come sia fattibile.

Inoltre molti medici hanno ricordato, fin da marzo 2020, che isolare gli anziani può essere particolarmente pericoloso per la loro salute fisica e mentale. Sugli ultracinquantenni l’isolamento sociale ha infatti effetti drastici sulla salute, ed è associata con un rischio del 50 per cento più alto di demenza, del 32 per cento più alto di ictus e del 29 per cento più alto di malattie cardiache. In una casa di riposo di Chicago (Stati Uniti) il lockdown sembra associato, secondo una lettera pubblicata il 28 agosto 2020 sulla rivista medica Jamda, una sostanziale perdita di peso e mancanza di appetito in due terzi degli anziani assistiti.

Un’inchiesta dell’emittente statunitense Nbc ha raccontato come le condizioni di salute di molti anziani nelle case di cura, deprivati di contatti durante il lockdown, siano precipitate. Sebbene molte di queste conseguenze siano probabilmente inevitabili durante un lockdown generalizzato, e sebbene vadano valutate nel contesto del grave rischio che comporta la Covid-19 negli anziani, separare molti nuclei familiari, come richiederebbe un isolamento completo degli over 60, rischia di aumentare ulteriormente i costi umani di un lockdown selettivo.

Sono vulnerabili solo gli anziani?

Ci sono forti sospetti che far circolare il nuovo coronavirus tra i giovani non sia innocuo come potremmo pensare, e che invece possa portare a un serio carico sanitario a lungo termine. Secondo Stephen Griffin, professore associato della School of Medicine dell’Università di Leeds, «come potremmo identificare le persone a rischio e separarle efficacemente dal resto della società? Basare il rischio primariamente sul rischio di morte ignora completamente la ampia prevalenza di malattia associata alla pandemia, incluso quello che oggi chiamiamo long Covid».

Con questa espressione, traducibile con «Covid-19 lungo» o «persistente», ci si riferisce ai pazienti Covid-19 che, anche se non necessariamente ospedalizzati, hanno sintomi debilitanti o danni organici che persistono settimane o addirittura mesi dopo l’infezione. Tra questi effetti ci sono danni permanenti a polmoni, cuore, sistema immunitario e cervello; difficoltà del sonno e della concentrazione; sintomi simili alla sindrome da stanchezza cronica. Questi strascichi a lungo termine colpiscono una percentuale ampia dei contagiati da Covid-19 (dal 50 all’80 per cento dei malati, secondo gli studi citati da Anthony Komaroff della Harvard Medical School) e colpiscono anche le fasce d’età più giovani: il 20 per cento dei sintomatici Covid-19 tra 18 e 34 anni riporta sintomi prolungati.

I bambini non sono esenti da conseguenze serie della Covid-19. Sebbene ricoverati in minor numero, la Covid-19 può causare nei minori una sindrome infiammatoria con febbre, ipotensione, dolore addominale e disfunzioni cardiache.

Anche senza tenere conto delle conseguenze a lungo termine sappiamo che, se le morti sono molto più elevate negli anziani, la differenza diminuisce quando si va a vedere il tasso di ospedalizzazione. Prendiamo per esempio i trentenni, una fascia produttiva che però non viene considerata a particolare rischio.

Secondo i dati utilizzati dallo stesso modello di Favero, Ichino e Rustichini, se la probabilità di decesso per un infetto da Covid-19 nella fascia 30-39 anni è dello 0,08 per cento, oltre 116 volte inferiore al 9,3 per cento di un ultra ottantenne, la probabilità di un ricovero ospedaliero nella fascia 30-39 anni è del 3,2 per cento: solo 8,5 volte inferiore al 27,3 per cento degli ultra 80enni. Sempre secondo gli stessi dati, i trentenni hanno una probabilità molto bassa (0,16 per cento) di essere ricoverati in terapia intensiva. Visto però che la fascia da 30 a 39 anni include però quasi 7 milioni di persone, se tutti questi venissero a contatto col virus ne risulterebbero oltre 11.000 ricoveri in terapia intensiva.

In conclusione

Gli anziani sono la fascia più debole e colpita dalla Covid-19 in termini di mortalità, ricoveri ospedalieri e in terapia intensiva: come tale, proteggerli il più possibile dall’infezione è fondamentale per limitare l’impatto umano e sanitario della pandemia.

Questo non significa però che limitarsi a isolare gli anziani sia una soluzione priva di conseguenze per il resto della popolazione. Anche se non è nostro compito commentare gli aspetti etici e politici della scelta di concentrare il lockdown lavorativo solo sugli over 60, il modello di Favero, Ichino e Rustichini non nasconde che il minore (ma non trascurabile) impatto economico di tali interventi mirati si accompagnerebbe comunque a un sostanziale aumento della mortalità rispetto a un lockdown generale.

A sua volta, come ammette l’autore della proposta pubblicata da Ispi, non è affatto chiaro come si possa ottenere, specie in brevissimi tempi, un isolamento completo delle fasce della popolazione sopra i 60 anni di età: l’esperienza di Paesi come la Svezia ha mostrato che tali approcci mirati finora non sono stati in grado di funzionare e sono risultati in mortalità complessive nettamente superiori rispetto a paesi comparabili per cultura e struttura della popolazione.

Infine, la libera o più facile circolazione del virus nelle fasce più giovani della popolazione non è priva di conseguenze sanitarie (e quindi economiche) a breve e lungo termine che, sebbene ridotte rispetto a quelle sulle fasce più anziane, non sono trascurabili. Viceversa, l’isolamento sociale totale degli anziani rischia di avere conseguenze sanitarie serie, che vanno tenute in conto.

Sebbene sia doveroso discutere metodi e politiche per proteggere le categorie più deboli durante la pandemia, l’idea che i più giovani possano convivere serenamente con il virus, tenendo in disparte gli anziani, sembra scarsamente plausibile e con un rapporto costi-benefici più problematico di quanto appaia a prima vista. La protezione degli anziani ha senso, almeno al momento, solo all’interno di interventi che coinvolgano tutta la popolazione.

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