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Non è vero che uno studio ha dimostrato che la quarantena «non serve a fermare il diffondersi del virus»

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30 novembre 2020
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Il 26 novembre 2020 è arrivata alla redazione di Facta la richiesta di verificare un articolo pubblicato dalla testata Database Italia il 16 novembre 2020, intitolato «New England Journal of Medicine, la quarantena anche se imposta dai militari non serve a fermare il diffondersi del virus». Si tratta della traduzione di un articolo pubblicato il 13 ottobre 2020 sul sito dell’American Institute for Economic Research (Aier), un think tank libertario e pro-libero mercato. L’Aier è stata la sede dove, a ottobre 2020, è stata stilata la Great Barrington Declaration, un manifesto a favore dell’idea pseudoscientifica di controllare la pandemia tramite il raggiungimento dell’immunità di gruppo, proteggendo solo le categorie a rischio come gli anziani.

Secondo l’articolo, firmato da Jeffrey A. Tucker – direttore editoriale dell’Aier – uno studio pubblicato dalla rivista accademica di medicina New England Journal of Medicine avrebbe dimostrato che «la quarantena estrema tra le reclute militari non ha fatto nulla per fermare il virus» e che quindi le misure di lockdown e consimili sarebbero inutili.

Lo studio esiste davvero ed è stato pubblicato l’11 novembre 2020 da un team della Icahn School of Medicine dell’ospedale Mount Sinai di New York, ma non dimostra che quarantene e misure restrittive siano inutili nella lotta alla Covid-19. 

Lo studio si basa su 3.143 reclute del corpo dei marines che dopo una quarantena a casa di due settimane sono state ospitate in un campus universitario, esclusivamente usato per loro. Del totale, 1.848 hanno partecipato allo studio. 

Le reclute sono state sottoposte per 14 giorni a un regime di quarantena in cui, tra le altre cose, era obbligatoria la mascherina in tutte le circostanze tranne durante i pasti e il sonno, doveva essere rispettato il distanziamento sociale di almeno 1 metro e 80 centimetri, bisognava rispettare le regole di una corretta igiene delle mani, non era previsto nessun tipo di assembramento, il numero massimo era di due persone per stanza e vigeva l’obbligo di risiedere nella propria stanza se non durante l’addestramento. 

È importante notare che tutte le reclute hanno condiviso questo regime, anche quelle che non hanno partecipato allo studio. L’unica differenza è che le reclute che hanno preso parte allo studio sono state testate all’ingresso del campus, dopo 7 e dopo 14 giorni, e se positive venivano isolate, mentre le altre sono state testate solo alla fine della quarantena. L’articolo originale di Aier è, per loro stessa ammissione, stato corretto per chiarire questo particolare. Nella traduzione pubblicata da Database Italia, probabilmente relativa a una versione precedente, permane l’impressione che le reclute non partecipanti allo studio non siano state in quarantena. 

L’articolo pubblicato da Database Italia e l’originale dell’Aier allegano una tabella – presente nello studio – che riporta il numero di positivi al Sars-CoV-2 tra le reclute. Vengono enfatizzati due numeri: alla fine dello studio, secondo la tabella, 51 partecipanti (il 2,8 per cento) totali erano stati trovati positivi al Sars-CoV-2 nel corso dei tre controlli settimanali. Nell’ultimo giorno di quarantena, invece, 26 non partecipanti erano positivi, ovvero l’1,7 per cento. Questo dato viene interpretato dai due articoli come la prova che neanche isolare i positivi e i test ripetuti servono a controllare la diffusione del virus e anzi, nel gruppo sottoposto a test e isolamento si sarebbe diffuso di più. 

La tabella come presentata nell’articolo del New England Journal of Medicine, con i numeri evidenziati in rosso dall’Aier

Il problema è che si confronta la somma dei positivi trovati in tre sessioni di test lungo 14 giorni con i positivi di un singolo test al 14esimo giorno. Il numero corretto con cui fare il confronto, per il gruppo sottoposto a test e isolamento, è nella riga sopra della tabella e mostra solo 11 positivi alla fine dello studio, ovvero lo 0,6 per cento. Circa un terzo rispetto al gruppo che non ha partecipato. Sono numeri troppo piccoli per un confronto statistico davvero significativo, ma semmai suggeriscono che isolamento e test abbiano in qualche modo funzionato.

Infine gli articoli concludono sostenendo che questo studio mostrerebbe che il virus può propagarsi anche in condizioni molto restrittive, e quindi i lockdown sono inutili. È un salto logico non valido. Le reclute infatti non erano completamente isolate: avevano un compagno di camerata e facevano attività collettive nel loro plotone, e infatti le infezioni tracciate si possono ricondurre quasi tutte, secondo lo studio, ai compagni con cui condividevano il sonno e le attività.

Lo scopo esplicito dello studio era di capire come e quanto possano funzionare certe misure in ambito militare e quali siano i fattori di rischio. Il confronto con un lockdown non ha alcun senso perché, anche in tal caso, nessuno pensa di azzerare del tutto la diffusione del virus: l’importante è ridurre il famoso numero R0, ovvero il numero di contagi causati in media da una persona infetta, per ridurre man mano i casi. L’efficacia delle misure restrittive (sia veri e propri lockdown sia di altro tipo) è stata verificata da altri studi, che concordano sul loro successo nel mettere sotto controllo la diffusione del virus: qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui solo alcuni.

In conclusione, lo studio esiste ma è presentato da questi articoli in modo fuorviante e non dimostra affatto che le misure restrittive siano inutili, dato invece confermato da numerosi studi su Paesi di tutto il mondo.

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