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L’origine di omicron potrebbe essere la chiave per il futuro della pandemia

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10 febbraio 2022
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Abbiamo imparato a conoscere omicron in quanto enormemente infettiva ma capace (anche grazie ai vaccini) di causare una patologia meno grave rispetto alla variante delta. Nei non vaccinati, però, la gravità della malattia sembra confrontabile con la variante originale del virus e quindi non è opportuno chiamarla “leggera”.

Ma l’origine di omicron potrebbe dirci cose molto importanti sul futuro della pandemia e della nostra difficile convivenza con Sars-CoV-2. Vediamo qual è il punto e che cosa implicano le ipotesi in circolazione.

Una variante con una lunga storia

Omicron innanzitutto non deriva da delta, o da un’altra delle varianti note che sono circolate di recente durante la pandemia: gli alberi evolutivi ricavati dall’analisi del genoma indicano che ha iniziato il suo cammino evolutivo poco dopo l’inizio della pandemia, da un ceppo che doveva essere simile a quello originario di Sars-CoV-2. Omicron però ha un numero di mutazioni sorprendente, circa 50, di cui 36 solo nella proteina Spike, che sembrano indicare un processo di evoluzione e adattamento. Queste mutazioni agiscono di concerto, permettendo a omicron di sfuggire in parte all’immunità garantita dai vaccini, ma di agganciarsi alle cellule con la stessa forza e precisione delle altre varianti.

L’altra caratteristica peculiare di omicron è che in realtà dietro a questo nome vi sono tre sotto-varianti, note con le sigle BA.1, BA.2 e BA.3. Ognuna di queste condivide la maggior parte delle mutazioni con le altre due, ma sono abbastanza diverse da indicare che omicron si è evoluta e diversificata prima che gli scienziati la vedessero circolare. La sotto-variante BA.2, ai primi di febbraio 2022, si sta espandendo in Sudafrica e sembra perfino più contagiosa della versione di omicron finora prevalente, BA.1.

Tutte queste caratteristiche indicano che omicron deve avere una lunga storia dietro di sé: è stata capace di evolvere nell’ombra numerose mutazioni che l’aiutano a diffondersi e a sfuggire in parte al sistema immunitario, senza essere avvistata. Come è potuto accadere? La prima possibilità è che omicron si sia evoluta per così dire “di nascosto”, in una popolazione di persone poco monitorata, prima di evolvere la capacità di diffondersi con grande rapidità e saltare all’occhio dei ricercatori in Sudafrica. È vero che in gran parte del mondo si sequenzia molto poco. Specialmente in Paesi come l’India, la Russia o i Paesi sudamericani (ma anche in Italia), in meno dell’un per cento dei casi diagnosticati di Covid-19 viene sequenziato il genoma del virus.

In teoria dunque non si può escludere che una linea evolutiva, magari rara per lungo tempo prima di acquisire le mutazioni “decisive” capaci di farla esplodere, possa essere sfuggita per molti mesi. Ciò nonostante, argomenta su Nature il bioinformatico Tulio de Oliveira, leader del tracciamento sudafricano delle varianti, sembra improbabile che una variante che ha accumulato così tante mutazioni possa essersi evoluta senza che i suoi antenati abbiano mai fatto capolino nel monitoraggio mondiale della pandemia. Se non in Sudafrica, almeno nei viaggiatori che avessero portato qualche ipotetico progenitore di omicron con sé in Paesi dove invece si sequenzia spesso, come il Regno Unito.

L’ipotesi dell’infezione cronica

Una nuova variante parzialmente resistente agli anticorpi però può evolversi in un ambiente molto particolare: quello di una persona con un’infezione cronica da Covid-19. In un paziente con un sistema immunitario indebolito, il virus potrebbe continuare a riprodursi e a evolversi, accumulando mutazioni che l’aiutano a sfuggire alla risposta immunitaria dell’organismo.

Non è solo teoria. Fin dal 2020, come descritto ad esempio in un rapporto del New England Journal of Medicine su di un paziente affetto da Covid-19 per cinque mesi e infine deceduto, sappiamo che infezioni di lunga durata esistono e che in esse il virus accumula mutazioni; altri casi sono stati descritti in seguito. Queste mutazioni spesso sono simili a quelle riscontrate nelle varianti pre-omicron del coronavirus. Anche se manca la prova, questi indizi fanno sospettare i ricercatori che eventi di questo genere possano aver contribuito all’evoluzione della variante alfa e di altre varianti di Sars-CoV-2, e forse anche omicron. In particolare la mutazione Q493R, esclusiva di omicron tra le varianti note, è stata osservata anche nell’evoluzione del virus in un paziente immunocompromesso, segno che la firma caratteristica di omicron potrebbe evolversi in questo contesto. Non è chiaro però come le sotto-varianti BA.1, 2 e 3 possano essersi evolute separatamente in un singolo paziente.

E se fossero i topi?

La teoria che sta riscontrando più interesse però è quella secondo cui omicron si sarebbe evoluta fuori da un essere umano, circolando in qualche popolazione animale. Anche qui, al momento non abbiamo nessuna prova, ma ci sono diversi indizi che la rendono una pista battuta dagli scienziati.

Per prima cosa, sappiamo da tempo che Sars-CoV-2 può infettare numerose specie animali: su Facta a novembre 2020 abbiamo raccontato di quando è divampato negli allevamenti di visoni. Ma non sono gli unici; già nel 2020 sapevamo che il virus infetta anche cani, gatti, tigri e leoni. Sembra che Sars-CoV-2 si stia diffondendo anche tra gli animali selvatici. Due studi sui cervi americani selvatici, uno pubblicato su Pnas a novembre del 2021, e un altro pubblicato su Nature a dicembre, hanno riscontrato che il 36-40 per cento degli animali campionati possedeva anticorpi contro Sars-CoV-2, segno di un’avvenuta infezione. Non è chiaro come sia avvenuta l’infezione dei cervi, ma sembra, dall’analisi genetica del virus, che questo sia riuscito a passare dagli esseri umani ai cervi più volte. È quindi accertato che Sars-CoV-2 ormai circoli anche in diverse specie di mammiferi in natura e che possa passare regolarmente a loro.

Ci sono indizi, inoltre, che il virus Sars-CoV-2 si evolva di nascosto in qualche specie animale nelle città, dove può venire a contatto con gli esseri umani. Il 3 febbraio 2022 uno studio pubblicato su Nature Communications ha descritto delle varianti “criptiche” del virus, ovvero mai riconosciute prima, reperite sequenziando il genoma di Sars-CoV-2 ritrovato nelle acque fognarie di New York. Queste varianti finora sconosciute contengono mutazioni che si riscontravano finora molto raramente nei pazienti umani ma che permettono al virus di infettare altri animali, come i ratti. Molte di queste mutazioni sono comuni anche alla variante omicron. È possibile che queste varianti rappresentino ceppi del virus che circolano in animali domestici, come cani o gatti, o nei ratti, e che si stanno evolvendo parallelamente al virus in circolazione negli esseri umani.

Anche omicron, in terzo luogo, sembra portare i segni del suo passaggio negli animali. Diversi studi hanno mostrato che le mutazioni di omicron sembrano renderlo capace di infettare i topi, una capacità che il virus originario non aveva, ma in passato acquisita anche da altre varianti, come beta. Le mutazioni di omicron si evolvevano raramente nei pazienti umani infettati da altre varianti, ma sono simili a quelle osservate facendo evolvere il virus originale in colture cellulari di topo. Di nuovo, questa non è una prova, ma è un indizio da tenere in considerazione.

Sappiamo infine che gli animali infetti da Sars-CoV-2 possono a loro volta causare focolai di Covid-19. È il caso dei criceti che hanno diffuso la variante delta a Hong Kong a gennaio 2022. Il virus probabilmente è entrato nei criceti poco prima, a novembre, ma diffondendosi tra gli animali aveva già accumulato mutazioni ed era ancora capace di diffondersi con successo tra le persone.

L’ipotesi quindi, ritenuta degna di considerazione nella comunità scientifica anche se non ancora dimostrata, è che omicron si sia evoluta rimbalzando tra animali e esseri umani: da noi, il virus sarebbe passato a una comunità di animali diffusa e a contatto con le persone, come i topi, si sarebbe evoluta a lungo indipendentemente, e poi sarebbe ritornata all’essere umano.

In conclusione

Sull’origine della Covid-19, come sappiamo, ci sono state numerose ipotesi e teorie del complotto. Conoscere l’origine della pandemia avrebbe comunque un impatto limitato sulla sua gestione, anche se possono aiutarci a comprendere e prevenire pandemie future. Il mistero sull’origine della variante omicron invece sembra suggerire che non comprendiamo qualcosa di fondamentale su come si evolve il virus Sars-CoV-2, e quindi su come affrontare la pandemia e la sua transizione all’endemicità.

Se si rafforzassero gli indizi su un’origine animale di omicron, in particolare, questo significa che la circolazione del virus negli animali può rappresentare uno dei maggiori rischi per l’evoluzione di nuove varianti. È difficile decretare la fine della pandemia quando esistono una o più riserve animali di virus che possono riversare nuove varianti, talvolta molto diverse dalle precedenti, nella popolazione: si tratterebbe di una situazione simile a quella dell’influenza, che passa permanentemente dagli animali all’uomo e viceversa, come argomentato già a luglio 2021 sulle pagine di Nature. Se invece si accertasse che gli individui immunodepressi possono evolvere nuove varianti, questo significa che sarebbe necessario rafforzare la protezione e il monitoraggio di questi pazienti, e fare ogni sforzo per evitare che si cronicizzi l’infezione.

In entrambi i casi necessario è potenziare il monitoraggio di Sars-CoV-2. Su Nature, l’8 febbraio 2022 la biostatistica Natalie Dean ha invocato un sistema mondiale di sorveglianza della Covid-19, allo scopo di informare le politiche future sulla pandemia, tramite campionamenti regolari della popolazione, mitigando il problema di popolazioni umane poco monitorate dove possano evolversi nuove varianti. A novembre 2021, invece, l’Organizzazione per il cibo e l’agricoltura delle Nazioni Unite (Fao) ha pubblicato una raccomandazione per monitorare il virus negli animali da allevamento e da compagnia, come richiesto il 27 gennaio 2022 anche da ricercatori dell’Istituto Pasteur di Parigi: questo ci permetterebbe di comprendere e anticipare, auspicabilmente, l’evoluzione del virus nell’ambiente e di prepararci ad esso con nuovi vaccini o strategie.

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