Nelle ore in cui questo articolo viene scritto, il 12 dicembre 2023, il negoziato per l’adozione del documento finale della Cop28, cioè la 28° conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici in corso a Dubai dal 30 novembre, è entrato nel vivo. La conclusione della conferenza, infatti, sulla carta è prevista proprio per il 12 dicembre, ma potrebbe andare avanti a oltranza fino a che tutte le parti non arriveranno a un punto d’incontro.
Nella giornata di lunedì Sultan Ahmed al Jaber, presidente del vertice, ha diffuso una bozza dell’accordo, che è stata sottoposta all’approvazione dei quasi 200 Stati partecipanti, e che include una serie di azioni che i Paesi potrebbero intraprendere per ridurre le emissioni di CO₂. Un testo controverso, che riconosce la necessità di una profonda riduzione dei combustibili fossili, ma non fa riferimento al cosiddetto phase out, cioè all’eliminazione graduale proprio dei combustibili fossili, richiesta fondamentale dell’Unione Europea e di molti Paesi particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici.
Espressioni come phase out e phase down, presenti nella bozza di testo in discussione alla Cop28 stanno causando molte incomprensioni e l’intero vertice è stato circondato dalla disinformazione climatica che si è diffusa sui social network, ma non solo.
Sultan Ahmed al Jaber è il capo della compagnia petrolifera degli Emirati Arabi Uniti, la Abu Dhabi national oil company (Adnoc) e secondo alcune analisi quest’anno sono stati presenti al vertice più di 2mila lobbisti legati ai combustibili fossili, quasi quattro volte di più rispetto agli anni passati. Questo forte legame con gli interessi delle multinazionali del fossile hanno creato – e continuano a farlo – una serie di dinamiche che hanno condizionato la narrazione sull’emergenza climatica, fondamentale per raggiungere un accordo che abbia davvero come obiettivo quello di un’azione concreta che possa ridurre le emissioni e provare a salvare il mondo dal collasso.
Cosa intendiamo quando parliamo di phase out e phase down
Prima di tutto, per capire la bozza di testo finale che è in discussione a Dubai, è importante cogliere a pieno il significato delle espressioni utilizzate. In particolare l’espressione “phase out” sta causando una serie di incomprensioni, soprattutto tra chi segue il vertice da casa e non ha una particolare dimestichezza con i termini scientifici.
Come ha spiegato su Lifegate Tommaso Perrone, giornalista ambientalista che è presente al vertice di Dubai, per phase out si intende una “eliminazione graduale” dei combustibili fossili. Un altro termine che sembra simile, ma in realtà è molto diverso e che si sta sentendo nominare in questi giorni, è phase down, che significa, invece, “riduzione graduale”. La questione se l’accordo finale della Cop28 includa o meno la richiesta di un “phase out” o “phase down” dei combustibili fossili è considerata da molti l’indicatore più importante del successo del vertice delle Nazioni Unite. La disputa può sembrare semplicemente terminologica, ma è in realtà complessa e profondamente politica.
Eliminare gradualmente i combustibili fossili ha un valore diverso rispetto a una graduale riduzione. Ed è per questo che alcuni Paesi ad alto consumo e produzione di fossili sono contrari. Per eliminazione graduale, o phase out, si intende una riduzione radicale dell’uso dei fossili fino a zero, o quanto più vicino a zero, entro il 2050. Riduzione graduale, o phase down, invece, è un termine più debole, che indica che la combustione dei fossili deve diminuire, senza però indicare di quanto ed entro quando.
La questione chiave in gioco nei negoziati di quest’anno, quindi, è se il calo dell’uso dei fossili debba portare a un’eliminazione graduale o semplicemente a una riduzione di tutti i combustibili fossili.
L’altra parola importante che si trova nella bozza è “abated“, cioè “abbattimento”. Si parla di questo concetto quando le emissioni di CO₂ prodotte dalla combustione dei fossili viene catturata e immagazzinata. Anche in questo caso, però, non esiste una definizione chiara delle Nazioni Unite sulla percentuale di emissioni che deve essere catturata per essere considerata “abbattuta” e l’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’ONU, ha chiarito da tempo che le tecnologie di cattura e stoccaggio (CCS) della CO₂ non possono essere la soluzione definitiva in grado di risolvere la crisi climatica. Inoltre, uno studio recente ha mostrato come un eccessivo affidamento alla CCS porta a costi economici molto più elevati rispetto ai percorsi che ne limitano l’uso.
Il termine è importante perché una delle opzioni sul tavolo dei negoziati è quella di concordare un’eliminazione graduale dei soli combustibili fossili «non abbattuti». E capire di cosa si sta parlando aiuta a non diffondere notizie imprecise, false e fuori contesto, che vanno in direzione opposta al consenso scientifico.
Sultan al Jaber e la disinformazione sulla scienza
È proprio sul parere della scienza che Sultan Ahmed al Jaber, il presidente del vertice, durante un evento online nel novembre 2023, aveva insistito, sostenendo che non esisterebbe alcuna scienza in grado di indicare la necessaria eliminazione graduale dei combustibili fossili per limitare il riscaldamento globale. Come riportato dal Guardian, al Jaber ha anche affermato che l’eliminazione graduale dell’uso delle fonti fossili non consentirebbe lo sviluppo sostenibile «a meno che non si voglia riportare il mondo nelle caverne».
La scienza su questo tema, però, è molto chiara: la combustione delle fonti fossili è la causa principale della crisi climatica, le emissioni di CO₂ devono crollare di quasi la metà entro il 2030 per avere anche solo una possibilità di raggiungere l’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C e precipitare poi a zero entro attorno al 2050. Ci sono diversi modi per arrivare a zero emissioni, ma Johan Rockström, direttore dell’Istituto di ricerca sull’impatto climatico di Potsdam in Germania, ha dichiarato: «Non vedo scientificamente altra comunicazione se non quella che dobbiamo eliminare gradualmente i combustibili fossili».
Dopo che il Guardian aveva reso pubbliche queste informazioni, Sultan al Jaber ha tenuto una conferenza stampa dichiarando di essere stato travisato ed evidenziando che «la riduzione e l’eliminazione graduale dei combustibili fossili è essenziale». Nonostante la retromarcia mediatica del presidente del vertice delle Nazioni Unite sul clima, però, l’aura della disinformazione è rimasta nell’aria.
I lobbisti legati al fossile che negano la crisi climatica
La disinformazione legata al business dei combustibili fossili, però, non è finita e nel vertice di quest’anno sta avendo un ruolo preponderante nell’influenzare il risultato finale e le azioni future per mitigare la crisi climatica. Questa pressione non arriva solo da politici e tecnici che partecipano direttamente alle negoziazioni e da alcuni Paesi che fanno pressione per non abbandonare il fossile, come il fronte rinominato dirty five e formato da Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Iran e Russia.
Un’inchiesta del Guardian ha rivelato che hanno avuto accesso ai colloqui sul clima almeno 166 negazionisti climatici e professionisti delle relazioni pubbliche legati ad attori protagonisti delle fonti fossili. Corporate Accountability, un organo di controllo sulla trasparenza delle imprese transnazionali, ha scoperto che gli organizzatori delle Nazioni Unite hanno autorizzato l’accesso a gruppi che hanno ostacolato la regolamentazione dei combustibili fossili e altre azioni per il clima, dando loro un accesso ai negoziati internazionali pari o superiore a quello delle comunità indigene, dei gruppi per i diritti umani e delle organizzazioni per la giustizia climatica. Le organizzazioni e le persone invitate dalle delegazioni nazionali, infatti, hanno anche accesso a negoziati a porte chiuse da cui la società civile è esclusa.
Tra questi erano presenti, ad esempio, la statunitense FTI Consulting, azienda di consulenza finanziaria nota per i suoi vari tentativi di controllare le narrazioni pubbliche sui combustibili fossili per i suoi clienti, così da impedire l’azione per il clima. E addirittura l’American Petroleum Institute, il più grande gruppo commerciale di combustibili fossili che da anni blocca gli sforzi per approvare una legislazione nazionale che limiti le emissioni di gas serra e che ha finanziato gruppi negazionisti.
Tom Goldtooth, direttore esecutivo dell’Indigenous Environmental Network, una coalizione di attivisti indigeni per la giustizia ambientale, ha dichiarato che «l’industria dei combustibili fossili sta facendo di tutto per assicurarsi il futuro in un mondo e in un clima in continuo cambiamento» aggiungendo che «le aziende produttrici di combustibili fossili e i grandi Stati petroliferi stanno portando i loro lobbisti e il loro infinito supporto alle pubbliche relazioni per controllare, distorcere e rendere più ecologica la loro narrazione». Mentre David Tong, responsabile della campagna globale del settore per Oil Change International, organizzazione che si occupa di far conoscere i veri costi dei combustibili fossili e di facilitare una transizione verso l’energia pulita, ha denunciato che «è osceno che le organizzazioni che negano il clima e le agenzie di pubbliche relazioni delle compagnie di combustibili fossili siano benvenute in questi negoziati per mentire e falsare la narrazione».
I vari ecosistemi della disinformazione
La disinformazione climatica non è un fenomeno recente. Eppure nel 2023, cioè quello che l’agenzia europea Copernicus ha definito come l’anno «sulla buona strada per diventare l’anno più caldo di sempre», il negazionismo e le informazioni false e senza fondamento che riguardano la crisi climatica continuano a prosperare. E in occasione del vertice sul clima ha subito un’impennata.
Un rapporto pubblicato dalla Climate Action Against Disinformation (Caad), una coalizione globale formata da oltre 50 organizzazioni per il clima e contro la disinformazione, ha fornito un’immagine su alcuni ecosistemi impegnati nella disinformazione che ha inquinato la narrazione sulla Cop28. Secondo Caad si tratterebbe principalmente delle lobby dei combustibili fossili, di reti affiliate ad alcuni Stati, come Russia, Cina e Iran, e di altri attori che traggono profitto dalla diffusione della disinformazione online.
Ad esempio, nel rapporto di Caad, sono stati riportati 15 siti web che pubblicano disinformazione sul clima, tra cui The Daily Telegraph, Breitbart e Newsmax, e che traggono profitto da questo tipo di contenuti attraverso i click e la pubblicità. Ma non solo, oltre al pubblico che si confronta direttamente con i contenuti sui loro siti web o altri canali, questi media vengono ampiamente citati sulle piattaforme social e spesso servono a “normalizzare” o legittimare affermazioni false e fuorvianti sul clima e i cambiamenti climatici.
Sempre nello stesso report si legge che nella tempesta online legata alla disinformazione sul clima, alcuni account sostenuti dallo Stato russo, ma non solo, sono apparsi come agenti di caos. Le operazioni informative legate a Paesi come la Russia, la Cina e l’Iran sono ben documentate per quanto riguarda l’uso dei social media e il tentativo di sfruttare le tensioni all’estero per i propri interessi. Ad esempio, alcuni account ufficiali russi hanno descritto gli investimenti nei combustibili fossili in Africa come tentativi di “rubare” le risorse del continente, quando questi erano collegati ai Paesi occidentali, mentre li hanno acclamati come importanti vettori dello sviluppo economico quando collegati alla Russia.
Oppure in Cina, dove la disinformazione sul cambiamento climatico ha una lunga storia, secondo uno studio condotto nel maggio 2023 da Annie Lab, un progetto di fact-checking dell’Università di Hong Kong. Per anni, gli appelli a combattere il cambiamento climatico sono stati dipinti in Cina come uno strumento utilizzato dall’Occidente per bloccare la crescita economica del Paese, piuttosto che come un tentativo di affrontare un problema globale.
Comprendere le tattiche ingannevoli impiegate dagli interessi dell’industria dei combustibili fossili e da altri attori, quindi, può essere utile a superare la disinformazione e comprendere in maniera più chiara eventi complessi come la Cop28, riconoscendo che dietro a notizie false, imprecise e fuori contesto, spesso, sono presenti interessi molto ampi e che fruttano miliardi di dollari di guadagno ogni anno.
Photo Credits: UNclimatechange via Flickr