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Perché l’approvazione dei vaccini contro la Covid-19 sta battendo tutti i record

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4 dicembre 2020
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[vc_row][vc_column][vc_column_text]Il 2 dicembre 2020 le autorità sanitarie del Regno Unito hanno dato il via libera al vaccino Pfizer-BioNTech per la distribuzione pubblica: è il primo vaccino approvato in Occidente contro la Covid-19 (altri vaccini sono stati approvati in Cina e in Russia). Un bagliore in fondo al tunnel, ma anche un esperimento biomedico su una scala senza precedenti. Per la prima volta nella storia, i vaccini contro una malattia finora sconosciuta sono stati concepiti, testati e approvati in meno di un anno: in media ce ne vogliono più di 10. 

Ma quanto possiamo fidarci di vaccini sviluppati in così poco tempo? Come viene garantita la loro sicurezza per prevenire la Covid-19 e mettere fine alla pandemia? Non si tratta di domande insensate.

A differenza di altri farmaci, infatti, lo scopo di molti vaccini è la prevenzione di massa. La somministrazione ad un’intera popolazione di persone sane fa sì che anche una piccola percentuale di effetti collaterali possa tradursi in una quantità molto alta di persone colpite da tali effetti. Perché ne valga la pena, quindi, il beneficio derivato dal vaccino deve essere, quindi, decisamente superiore al rischio e gli effetti collaterali devono essere pressoché inesistenti. 

A proteggerci dai rischi, per quanto possibile, c’è oggi una complessa serie di protocolli che permettono la messa in commercio di un vaccino solo dopo molti studi e in seguito una continua sorveglianza degli effetti. 

Vediamo che cosa è successo nel caso della pandemia da Covid-19 e quali problemi rimangono aperti.

Come viene approvato un vaccino

Un vaccino, come qualunque altro farmaco, viene approvato e messo in commercio al termine di quattro fasi di studio clinico necessarie per verificarne la sicurezza e l’efficacia e di norma la fase successiva inizia solo quando la precedente è stata completata con successo. 

Dopo una fase preclinica su modelli animali considerati affidabili (qui un approfondimento) si passa alla cosiddetta “fase I” su pochi volontari sani, di norma da dieci a cento persone. Si verifica quindi che il vaccino sia sicuro e tollerabile a dosi crescenti, e che non abbia effetti collaterali troppo pesanti, come ad esempio reazioni allergiche. In questa fase si valuta anche se il vaccino induce una risposta immunitaria, ovvero se predispone l’organismo a reagire contro il virus. 

Nella successiva fase II si continuano a studiare la sicurezza e la risposta immunitaria su più larga scala (diverse centinaia di individui) e l’effetto del vaccino su categorie diverse di persone, per esempio giovani e anziani. In generale, le fasi I e II sono finalizzate a definire quale sarà il dosaggio e le tempistiche di somministrazione ottimali del vaccino e la sua capacità di generare una risposta immunitaria.

Con la fase III si verifica poi se il vaccino è in grado di proteggere dall’infezione in circostanze analoghe al suo uso reale e normale. Si tratta di studi condotti su migliaia o decine di migliaia di soggetti ed effettuati “in doppio cieco”: ovvero né il volontario sottoposto al test né il medico che somministra l’iniezione sa se riceve placebo o vaccino, per eliminare ogni possibile influenza dovuta alle aspettative di entrambi. Nella fase III si verifica quindi che i vaccinati abbiano una minore probabilità di infettarsi rispetto a coloro che si sono sottoposti al placebo, e di quanto.

Se la fase III è superata, si può chiedere agli enti di controllo l’autorizzazione per mettere il vaccino in commercio. Gli enti, come la European medicines agency (Ema) valutano i risultati del test clinico (qui le linee guida Ema per la valutazione) e giungono a una decisione. 

Una volta distribuito, il vaccino continua a essere tenuto d’occhio: è la cosiddetta “fase IV” di studio clinico, che include la sorveglianza attiva dei cosiddetti eventi avversi, ovvero, secondo la definizione dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) «qualsiasi evento sfavorevole di natura medica che si osserva dopo una vaccinazione e che non necessariamente presenta una relazione causale con essa, ma che richiede ulteriori approfondimenti».

Negli Stati Uniti esiste un sistema di sorveglianza attiva chiamato Vaers (Vaccine adverse event reporting system) che permette a tutti i cittadini di segnalare eventi avversi. I medici e i produttori di vaccini del Paese sono obbligati a segnalare a Vaers un’ampia categoria di eventi avversi e i dati sono poi disponibili pubblicamente.

In Europa per ora non c’è un sistema comune e la sorveglianza è delegata ai singoli Stati. In Italia la sorveglianza sui vaccini è guidata dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e l’ultimo rapporto annuale disponibile risale al 2018

Che cosa è cambiato con la pandemia

Normalmente dalla fase preclinica all’approvazione di un vaccino passano in media  quasi 11 anni, tempi incompatibili con la pandemia da Covid-19. Le aziende farmaceutiche e le enti di controllo di tutto il mondo hanno quindi dovuto accelerare di dieci volte i tempi di sviluppo, mantenendo però gli standard di sicurezza.

Per fortuna questi tempi dilatati sono dovuti in gran parte a motivi di organizzazione e investimento economico. Creare un nuovo vaccino è un investimento rischioso: nel 2013 la probabilità di un vaccino in sviluppo preclinico di arrivare sul mercato era del 6 per cento. Il costo medio per sviluppare un vaccino dalla fase preclinica al test clinico di fase II è intorno a 31-68 milioni di dollari. Un singolo test clinico di fase III ha un costo mediano di 19 milioni di dollari

Per questo, in condizioni normali, un vaccino avanza alla fase successiva solo alla conclusione della fase precedente. E cioè quando, analizzando tutti i dati, il vaccino non solo appare sicuro, ma sembra anche promettere di avere successo e poter andare sul mercato. Per lo stesso motivo non si mette a punto la produzione su larga scala del vaccino – un processo di per sé lungo e complesso – prima di aver concluso i test clinici. 

Per eliminare questi ostacoli e cercare di gestire al meglio l’emergenza sanitaria in atto, i governi si sono assunti in parte o in pieno il rischio economico. Si veda ad esempio l’operazione Warp Speed americana, che ha allocato 18 miliardi di dollari per sostenere lo sviluppo di diversi vaccini in parallelo, e gli analoghi contributi dell’Unione europea, con 7,5 miliardi di dollari di fondi e vari contratti anticipati per l’acquisto di due miliardi di dosi del vaccino, come spiegato in dettaglio dai colleghi di Pagella Politica.

Come ha spiegato Saad Omer – direttore dello Yale Institute for Global Health e parte del gruppo di lavoro dell’Oms sui vaccini per la Covid-19 – e come illustrato in questo riassunto dell’Ema, nel caso della pandemia attuale si è risparmiato molto tempo eseguendo alcune fasi in parallelo, «per esempio combinando i test di fase I e fase II, facendo studi animali in parallelo con quelli su esseri umani […] e preparando gli impianti di produzione prima ancora che il vaccino fosse portato a buon fine». 

Le agenzie che si occupano di valutare e autorizzare il vaccino hanno applicato un procedimento di rolling review, ovvero in cui i dati vengono valutati man mano che emergono dai test clinici e non tutti insieme, alla fine. L’Ema ha anche messo in piedi, ad aprile 2020, una apposita task force per seguire e offrire consulenza sullo sviluppo di terapie e vaccini anti-Covid-19. Sempre secondo Saad Omer, e come viene descritto anche nelle linee guida Ema per l’approvazione dei vaccini anti-Covid-19, un’altra strategia è stata aumentare la quantità di persone coinvolte nei test clinici per avere un numero maggiore di dati in minor tempo.

Per quanto riguarda poi i tempi ridotti degli studi clinici di fase III, sia Omer sia l’Ema ricordano che la maggior parte degli eventi avversi nei vaccini in sperimentazione si osserva di solito entro 4-6 settimane dalla vaccinazione. Le linee guida Ema raccomandano che la vigilanza sul gruppo oggetto del test clinico prosegua almeno un anno, anche se nel frattempo il vaccino può essere approvato. A livello europeo è già stato stilato un piano di farmacovigilanza sui vaccini Covid-19 che verranno distribuiti. 

Quando la fretta è cattiva consigliera

Non tutto però è perfetto come sembra. La fretta di ridurre così tanto i tempi per arrivare a un vaccino funzionante ha suscitato preoccupazione non solo tra i cittadini, ma anche all’interno della stessa comunità scientifica. 

In Cina il 29 giugno 2020 e in Russia l’11 agosto 2020 due vaccini sono stati approvati senza concludere tutte le fasi di studio clinico, una decisione che ha attirato numerose critiche. Il 2 dicembre 2020 l’agenzia di regolamentazione europea Ema ha criticato la scelta del Regno Unito di approvare il vaccino Pfizer-BioNTech in così poco tempo, e anche Anthony Fauci – celebre immunologo statunitense – ha espresso riserve in un’intervista del 3 dicembre 2020 a Sky News. 

Medici e ricercatori hanno chiesto ripetutamente negli scorsi mesi, sulle pagine di varie prestigiose riviste mediche e scientifiche come Nature, British Medical Journal e JAMA, di non transigere sul rispetto delle procedure e degli standard di sicurezza. Mettere in circolazione un vaccino non sicuro o poco efficace, per poi doverlo ritirare, significherebbe infatti non solo un grosso passo indietro nella fine della pandemia, ma potrebbe anche ridurre la fiducia del pubblico nei vaccini in generale, con conseguenze anche su altre malattie. Introdurre un vaccino scarsamente efficace potrebbe infatti ostacolare una seguente campagna di vaccinazione con un vaccino più potente, rallentando l’uscita dalla pandemia. 

Esiste inoltre la possibilità, secondo un articolo pubblicato su Nature il 23 novembre 2020, che le approvazioni rapide dei primi vaccini possano complicare la sorveglianza sugli effetti a lungo termine. I test clinici si basano sull’esistenza di un gruppo di controllo, ovvero un gruppo di persone che non riceve il vaccino, per valutare le differenze tra chi lo ha preso e chi no. Nel momento in cui i vaccini vengono approvati, per motivi etici non si può impedire al gruppo di controllo di assumere il vaccino. Se manca un gruppo di controllo è difficile fare un confronto e quindi monitorare alcuni degli effetti a lungo termine del vaccino. 

La carrellata di preoccupazioni sopra riportate non è una novità, visto che in passato è successo che i vaccini causassero dei problemi. Un caso celebre è la campagna statunitense di vaccinazione contro l’influenza H1N1 nel 1976 quando, di fronte all’ipotesi di una pandemia, l’amministrazione Ford decise di sviluppare velocemente un vaccino antinfluenzale. Per accelerare i tempi, era stato utilizzato un virus vivo attenuato invece che ideare un vaccino con un virus inattivo: una strategia che, per quanta usata in passato, presenta però un maggiore rischio di effetti collaterali. 

Il vaccino venne infatti associato a un effetto collaterale serio, la sindrome di Guillain-Barré, un’evenienza rarissima (1 caso su 100.000) ma comunque rilevante su 45 milioni di vaccinati prima che la campagna venisse fermata. Aggiungiamo poi che in questo specifico caso il ceppo virale inoltre non era stato correttamente identificato e il vaccino si era poi rivelato quindi inutile. 

Questo esempio è utile per farci un’idea di quelli che possono essere i rischi legati ad una veloce produzione di un vaccino. Precisiamo però che ci sono molte differenze rispetto all’attuale situazione: il rischio pandemico dell’influenza del 1976 era assai incerto (e infatti non si presentò mai) mentre oggi la pandemia e il suo pericolo sono del tutto concreti. Inoltre, la tecnologia dei vaccini era a un livello molto più arretrato e oggi nessuno dei vaccini sperimentati contro Sars-CoV-2 contiene virus Sars-CoV-2 infettivo. 

Dati poco trasparenti

Il microbiologo Andrea Crisanti ha dato scandalo quando ha dichiarato che si sarebbe vaccinato contro la Covid-19 solo di fronte ai dati reali e non ai comunicati stampa delle aziende. Ma al di là dell’episodio che ha visto protagonista lo scienziato, riecheggiava una polemica già in corso nella comunità scientifica. 

La trasparenza dei dati nei test clinici è un problema di lunga data, che diventa più pressante di fronte a test clinici fatti con rapidità inedita per vaccini che, potenzialmente, dovranno essere distribuiti all’intera popolazione mondiale. Come ha fatto notare Nature a settembre 2020 «le società farmaceutiche tendono a non pubblicare i dettagli di come è stato condotto uno studio clinico, e in alcuni casi non rilasciano i risultati effettivi dello studio». Molte case farmaceutiche rilasciano i dati sui test clinici solo dopo molto tempo: Pfizer, per esempio, solo 24 mesi dopo la fine dei test clinici. Come ha commentato il giornalista scientifico Andrea Capocci, a quel punto «probabilmente il vaccino sarà già stato somministrato a miliardi di persone». D’altra parte Moderna, l’azienda coinvolta nello sviluppo di un altro dei vaccini in pole position per l’approvazione, è famosa da tempi non sospetti per la sua riservatezza. Il fiasco del vaccino AstraZeneca e la reticenza con cui sono stati comunicati gli eventi avversi riscontrati in alcuni test clinici da AstraZeneca e Johnson&Johnson hanno fatto emergere questa mancanza di trasparenza che potrebbe tradursi in una scarsa fiducia nel vaccino. 

Non è una questione astratta: il mancato rilascio pubblico dei dati ha causato in passato dei danni. Un caso eclatante fu quello del farmaco antivirale Tamiflu, prodotto dalla casa farmaceutica Roche. Il Tamiflu venne approvato per la terapia dell’influenza nel 2002 dall’Ema in Europa e nel 1999 dal Cdc in Usa, e raccomandato dall’Oms. Nessuno di questi organi però ebbe mai accesso ai dati dettagliati, ma solo alle statistiche aggregate e a studi in gran parte finanziati dalla Roche. Una campagna guidata dal British Medical Journal e dalla Cochrane Library, il principale organo internazionale di revisione indipendente delle evidenze scientifiche in medicina, riuscì a ottenere finalmente i dati completi dei test clinici da Roche dopo quattro anni di insistenze. I dati rivelarono che in realtà non c’erano evidenze convincenti che il Tamiflu fosse efficace come promesso (per esempio è tuttora incerto se possa ridurre le polmoniti), e sollevarono nuove questioni sui possibili effetti collaterali.

Bisogna notare che nel tempo le cose sono anche  migliorate. Ad esempio dal 2016 l’Ema pubblica i report degli studi clinici, anche se questo non significa necessariamente che siano disponibili tutti i dati, e sono stati rilasciati i protocolli dettagliati che guidano i test clinici dei vaccini anti-Covid-19. 

In conclusione

I risultati eccezionali che portano alla nascita di un vaccino sono, di norma, legati a protocolli clinici estremamente rigorosi ma costosi, molto lenti e affinati nel corso di decenni. Con la pandemia da Covid-19 la ricerca scientifica è invece costretta a spingere sull’acceleratore per venire incontro ai bisogni del mondo intero. 

È del tutto probabile che i vaccini per la Covid-19 saranno in gran parte sicuri ma il loro sviluppo in una situazione di elevata emergenza sanitaria ha mostrato le difficoltà che normalmente il settore deve affrontare: le lentezze burocratiche, i delicati bilanci etici tra rapidità e sicurezza, la questione non completamente risolta della trasparenza dei dati. 

La prossima distribuzione dei vaccini contro la Covid-19 sarà un punto di svolta per la pandemia, ma sarà anche un’occasione storica per un salto in avanti nel modo in cui progettiamo e testiamo nuove terapie. 

 

Si ringraziano Daniela Ovadia e Andrea Capocci per contributi e informazioni.

Immagine di copertina da Flickr (https://bit.ly/Flickr-vaccino)
di IAVI Design and Development Lab, del 26 aprile 2011

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