Il 21 gennaio 2021 una bambina di dieci anni è deceduta all’ospedale Di Cristina di Palermo, dove era arrivata il giorno prima in gravissime condizioni a causa di un arresto cardiocircolatorio dovuto ad asfissia prolungata. Fin dalle prime ore i giornali hanno puntato il dito contro una presunta «sfida estrema su TikTok» culminata in tragedia (ad esempio qui, qui e qui), pista che secondo quanto spiegato da laRepubblica sarebbe stata suggerita dagli stessi parenti della giovane vittima e in particolare dalla sorella di 9 anni, che avrebbe dichiarato che «stava facendo il gioco dell’asfissia». Stando ai giornali locali, le autorità starebbero ora indagando per istigazione al suicidio.
Pochi giorni più tardi, il 25 gennaio 2021, un bambino di 9 anni è stato trovato senza vita nella sua casa di Bari. Secondo i mezzi d’informazione tra le varie ipotesi percorse dagli inquirenti c’è quella del «gesto di emulazione legato a sfide social». Nonostante le dichiarazioni caute del procuratore del Tribunale per i minorenni di Bari Ferruccio De Salvatore («Al momento non abbiamo elementi che colleghino questo episodio a giochi online»), il collegamento tra i due fatti di cronaca è ancora oggi al centro dell’attenzione mediatica.
Le indagini sulle motivazioni dietro i gesti dei due bambini sono ancora in corso, ma possiamo intanto fare chiarezza su un punto cruciale: su TikTok esiste una sfida che spinge al soffocamento? E, in generale, che cosa ci dicono i dati su fenomeni simili?
La Blackout challenge
A partire dal 21 gennaio, i mezzi d’informazione hanno collegato la tragedia di Palermo alla cosiddetta Blackout challenge, che secondo Il Riformista sarebbe una «sfida estrema che spopola su molti social amati dai ragazzini tra cui TikTok». Tale sfida consisterebbe nel «mostrare la propria capacità di resistere il maggior tempo possibile con una cintura stretta attorno al proprio collo» scrive sempre Il Riformista, che aggiunge «su TikTok ci sono tantissimi video che rispondono a questa sfida».
Quella dei giochi finalizzati all’auto-strangolamento è purtroppo una dinamica reale, diffusa da almeno 25 anni e dunque precedente all’avvento dei social network. Secondo una ricerca pubblicata dai Centers for Disease Control and Prevention (l’ente statunitense per il controllo e la prevenzione delle malattie), tra il 1995 e il 2007 questo fenomeno ha provocato almeno 82 vittime tra i 6 e i 19 anni nei soli Stati Uniti. I Cdc lo chiamano The choking game (in italiano, il “gioco dello strangolamento”) e consiste nell’auto-strangolamento – o nello strangolamento consensuale di un’altra persona – «per raggiungere un breve stato di euforia causato dall’ipossia cerebrale», ovvero dalla diminuzione di ossigeno al cervello.
Secondo una ricerca pubblicata nel 2006 dalla professoressa di medicina pediatrica all’università di Colombo (Sri Lanka) Manouri Senanayake, il gioco dello strangolamento avviene nella maggior parte dei casi mediante una cintura e una gruccia ed è «un trend tra bambini e adolescenti nei Paesi occidentali» che si diffonde grazie alla televisione e a internet. La ricerca, vale la pena ribadirlo, si riferisce al fenomeno osservato quasi 15 anni fa.
Oltre che con il nome di choking game, il fenomeno è noto anche come airplaining (dalla sensazione di mancanza d’aria che si riscontra ad alta quota, in aeroplano), space monkey (scimmia spaziale), suffocation game (gioco del soffocamento), passout game (gioco dello svenimento), dream game (gioco dei sogni) o blackout. In Francia lo stesso fenomeno – che dal 2000 provoca «una decina di morti ogni anno», sostengono le associazioni nate per sensibilizzare i giovani sul tema – è invece conosciuto come jeu du foulard, in italiano “gioco della sciarpa”.
Come si legge in un articolo che il settimanale americano Time ha dedicato nel 2018 all’argomento, le istruzioni del choking game erano un tempo diffuse attraverso il passaparola e «il gioco veniva eseguito in coppia o in gruppo, con una persona che bloccava l’afflusso d’aria ma si fermava appena prima del punto di non ritorno». Ora, spiega il Time, «con milioni di video dimostrativi sull’asfissia, i bambini hanno maggiori probabilità di giocare da soli al cosiddetto gioco, soffocandosi nella loro camera da letto con le loro cinture e i lacci delle scarpe».
Insomma, la scena del delitto di Palermo potrebbe essere coerente con l’ipotesi di un gioco del soffocamento finito male. Ma quanta parte di questa responsabilità ricade effettivamente su TikTok e i social network?
La sfida su TikTok
Come parte delle ricerche preliminari per scrivere questo articolo, abbiamo provato a verificare se davvero il gioco dello strangolamento spopola sui social network e in particolare su TikTok.
Tra il 22 e il 26 gennaio 2021 non abbiamo rintracciato alcun video di soffocamento tra i risultati delle ricerche su TikTok, Facebook e Instagram per parole chiave come blackout, choking game, soffocamento e altri termini associati al cosiddetto gioco. Diversi sono i risultati restituiti invece da una ricerca su YouTube, ma tutti riferiti a video che trattano in modo critico il fenomeno, sottolineandone rischi e pericolosità.
Vale però la pena sottolineare che una differente Blackout challenge (il nome utilizzato dai media italiani) è realmente in corso su TikTok (con cui Facta collabora per contrastare la diffusione delle notizie false che circolano sulla piattaforma): in questo caso si tratta di una serie di video che ritraggono persone in atteggiamenti comuni prima che la luce vada via. Dopo alcuni secondi di buio le stesse persone eseguono azioni molto strane – come pedalare una cyclette al contrario o camminare sulle mani – generando un effetto comico.
Precisiamo che l’assenza di risultati non indica che video del genere non esistano o non siano mai esistiti sulle piattaforme (potrebbero essere stati moderati, rimossi o, sui social network che lo consentono, condivisi in gruppi privati. Potrebbero essere stati utilizzati hashtag non direttamente riconducibili al fenomeno), ma è evidente che non siamo di fronte a un trend significativo. Il 22 gennaio un portavoce di TikTok ha fatto sapere che l’azienda non ha riscontrato tracce della presunta sfida sulla piattaforma, respingendo dunque ogni accusa di aver rimosso quei contenuti.
Al momento non è possibile verificare quale fosse il tenore dei video pubblicati dalla giovane vittima su TikTok, perché non esiste alcun account registrato a suo nome. Sappiamo però che la bambina era molto attiva sulla piattaforma, come testimoniano i genitori e un filmato ancora presente sul suo account Instagram, che arriva proprio dal social cinese. Il video era stato originariamente pubblicato da un profilo riconducibile al padre della bambina (l’username resta impresso nei filmati registrati con TikTok), ma quell’account non contiene oggi alcun video. Nessuno dei contenuti pubblicati dalla vittima su Instagram, Facebook e YouTube fa riferimento ad atti di autolesionismo.
Ricordiamo che il regolamento di TikTok prevede un’età minima per iscriversi alla piattaforma (13 anni) e che da gennaio 2021 l’azienda ha introdotto ulteriori regole per tutelare i minori di 16 anni, i cui contenuti sono oggi protetti da un filtro che può essere aggirato solo con il consenso del minore. Nonostante ciò, il 22 gennaio il Garante italiano della privacy (l’autorità indipendente che si occupa della protezione dei dati personali) ha disposto «il blocco immediato dell’uso dei dati degli utenti per i quali non sia stata accertata con sicurezza l’età anagrafica».
Il rischio emulazione
Come abbiamo visto, sui social network non sembra essere oggi in corso alcun trend che spinge all’autolesionismo ed entrare in contatto con simili contenuti non è facile, né scontato. Il rischio più concreto, in questi casi, è invece quello dell’emulazione.
Una rapida ricerca su Google restituisce decine di risultati che parlano di decessi avvenuti in modo simile a quello di Palermo (ad esempio qui, qui e qui) e comparando le ricerche Google per il termine “blackout challenge”, notiamo come queste abbiano raggiunto il picco proprio dopo la tragedia di Palermo.
A tal proposito, uno dei risultati più facili da reperire sul web è questo video mandato in onda nel 2019 dalla trasmissione di Italia 1 Le Iene, intitolato “Sfide folli online: il Blackout challenge e la morte di Igor”.
Il servizio, lungo oltre 46 minuti, fa un’ampia premessa sulla pericolosità della Blue Whale – una presunta sfida online la cui stesse esistenza è stata messa in dubbio – prima di raccontare la storia di Igor, un quattordicenne milanese deceduto per asfissia dopo aver visualizzato un video su YouTube dedicato al choking game. Del caso si interessò anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ma recentemente il pubblico ministero ha archiviato le accuse di istigazione al suicidio contro lo youtuber.
In casi come questo esiste la possibilità concreta di attivare il cosiddetto “effetto Werther” (o Copycat suicide), il fenomeno di emulazione che porta ad un aumento dei suicidi dopo la notizia di un suicidio pubblicata dai media. Per contrastare tale dinamica, nel 2008 l’Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato un vademecum destinato alla stampa che invita a una «presentazione responsabile delle informazioni» evitando il sensazionalismo e l’eccessiva amplificazione della notizia.
In conclusione
Il 21 gennaio 2021 una bambina di 10 anni è deceduta a causa di un’asfissia. Quattro giorni più tardi un bambino di 9 anni è stato trovato senza vita a Bari. In entrambi i casi i media hanno collegato le morti a una possibile “sfida online” particolarmente in voga su TikTok.
Toccherà agli inquirenti verificare tale ipotesi, ma esiste un’ampia letteratura, scientifica e sociale, che parla dell’esistenza di giochi che portano all’autolesionismo per asfissia. Al momento non sembra però esserci un trend in corso sui social network e il collegamento con i fatti di cronaca è tutto da dimostrare.
Come spiega l’Organizzazione mondiale della sanità, il rischio più concreto in questi casi è quello dell’emulazione e nel trattare vicende come questa vale la regola, da parte della stampa, di evitare il sensazionalismo, l’eccessiva amplificazione della notizia e la presentazione dei dettagli.
Se hai bisogno di aiuto, puoi chiamare il Telefono Amico Italia allo 02 2327 2327: è disponibile tutti i giorni, 24 ore su 24. Oppure puoi scrivergli su WhatsApp al 345 036 16 28, tutti i giorni dalle ore 18 alle 21.
Puoi anche contattare l’associazione Samaritans allo 06 77208977, tutti i giorni dalle ore 13 alle ore 22, o al numero verde 800 86 00 22.
Se ti senti in una situazione di emergenza, puoi chiamare il 112.
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