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Dieci falsi miti da sfatare sulla comunità Lgbt+

Giugno è ormai celebre come il mese del Pride, quello che celebra e promuove l’accettazione sociale e l’auto-accettazione delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, asessuali, non-binarie e queer. Contestualmente alle parate e agli eventi all’insegna dell’inclusione, però, ogni anno si sviluppa un filone di disinformazione che mira ad alimentare lo stigma nei confronti della comunità Lgbt+.

La redazione di Facta si occupa ogni giorno di contrastare la disinformazione e nelle ultime settimane ci siamo più volte occupati di contenuti falsi o fuorvianti sul tema. Per celebrare il mese del Pride abbiamo però deciso di dedicare un approfondimento agli stereotipi che riguardano la comunità Lgbt+, partendo da dieci luoghi comuni.

No, per la scienza l’omosessualità non è una malattia

Una delle principali tecniche utilizzate per delegittimare le battaglie della comunità Lgbt+ è ancora oggi quella di negare alla radice la validità di un orientamento sessuale alternativo all’attrazione per individui di sesso opposto e di orientamenti di genere che non rispecchino quello del sesso assegnato alla nascita. È la cosiddetta eteronormatività, ovvero la convinzione che l’eterosessualità sia l’unico orientamento possibile, e per lungo tempo ha trovato una solida sponda nella comunità scientifica.

A partire dal 1952, infatti, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm) redatto dall’American Psychiatric Association (Apa) ha considerato l’omosessualità prima una condizione psicopatologica inserita tra i “disturbi sociopatici di personalità” e poi, dal 1968, una deviazione sessuale catalogata tra i “disturbi mentali non psicotici”, proprio come la pedofilia. 

Oggi le cose non stanno più così e il 17 maggio 1990 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha ufficialmente rimosso l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali, iniziando a considerarla invece «una variante naturale del comportamento umano». A partire dal 2018, l’Oms ha rimosso anche l’incongruenza di genere dalla lista dei disordini mentali.

Sebbene sia vero che le persone Lgbt+ tendano a soffrire di ansia e depressione in misura superiore rispetto alla popolazione generale e a sviluppare una maggiore dipendenza da alcol e droghe, ciò potrebbe essere dovuto principalmente alla stigmatizzazione sociale e alla violenza (fisica e verbale) subita dagli appartenenti alla comunità. Alcuni studi condotti negli ultimi anni hanno suggerito infatti che i disturbi mentali e le dipendenze potrebbero essere collegate allo stress di essere un gruppo minoritario e non ad una presunta predisposizione a questo tipo di condizioni. 

No, le persone vittime di abusi non hanno più probabilità di essere omosessuali

Un altro luogo comune riguardante la comunità Lgbt+ è l’idea che un orientamento sessuale possa essere il risultato di un trauma subito in giovane età. Questa teoria punta a patologizzare l’omosessualità e ha risvolti particolarmente dolorosi nel momento in cui si propone di “curarla” attraverso le cosiddette “terapie riparative”, pratiche pseudoscientifiche e talvolta religiose – che vanno da isolamento, elettroshock e somministrazione di psicofarmaci fino a incontri di gruppo ed esorcismi – in grado di infliggere danni e sofferenze a chi le subisce, tuttora legali in Italia.

Si tratta di “terapie” non supportate da alcun riscontro scientifico. La maggior parte degli studi epidemiologici hanno rintracciato un’associazione positiva tra abusi (fisici e sessuali) e orientamento omosessuale, ma senza riuscire a districare la direzione causale di tale associazione. In altre parole, i dati non sono in grado di dirci se i maltrattamenti subiti siano in grado di influenzare l’orientamento sessuale o se l’orientamento sessuale stesso sia la causa scatenante dei maltrattamenti. A ciò si aggiunge un particolare statistico: storicamente, le donne hanno maggiori probabilità di subire abusi sessuali durante l’infanzia, eppure la popolazione degli uomini gay continua a essere proporzionalmente superiore a quella delle donne lesbiche.

L’omosessualità non è una moda

Appurato che l’orientamento sessuale non è una malattia e che non esistono prove per affermare che sia il risultato di un’esperienza traumatica, vale la pena soffermarsi sull’idea che tutto ciò che esula dall’eteronormatività sia invece una scelta dovuta alla moda del momento, tesi sposata nel 2021 anche dal senatore della Lega Simone Pillon.

Benché la scienza moderna non sia ancora in grado di rintracciare in modo conclusivo la causa dell’orientamento sessuale, la maggior parte degli studi scientifici suggerisce che sia il risultato dell’interazione di forze sia biologiche che ambientali, non di una scelta personale.

Lo studio più esaustivo in tal senso è quello pubblicato nel 2008 su The Archives of Sexual Behavior da un team di ricerca anglo-svedese, che prendendo in esame il più ampio campione di gemelli mai considerato nel campo della psicologia sociale fino a quel momento (un oggetto di studio molto utile per escludere la componente genetica nei comportamenti umani, visto l’ampio corredo di geni in comune nelle coppie di gemelli) ha concluso che «il comportamento omosessuale è in gran parte modellato dalla genetica e da fattori ambientali casuali». Secondo una ricerca pubblicata nel 2019 su Science e guidata dal genetista Andrea Ganna (Mit e Harvard), la genetica influirebbe tra l’8 e il 25 percento nell’orientamento sessuale dell’individuo.

No, una famiglia con due genitori dello stesso sesso non danneggia la crescita del bambino

Quello di aprire l’adozione alle coppie dello stesso sesso è stato un tema politico dibattuto in molti Paesi, non ultima l’Italia, che nei primi mesi del 2016 ha discusso dell’opportunità di legiferare in merito alla cosiddetta “stepchild adoption”, che avrebbe esteso alle coppie omosessuali il diritto – già previsto per quelle eterosessuali sposate – di adottare il figlio biologico del partner. 

La norma naufragò poi nel dibattito parlamentare, ma la parallela discussione pubblica aveva evidenziato l’esistenza di un pregiudizio, che il presidente della Società italiana di pediatria Giovanni Corsello aveva sintetizzato al quotidiano la Repubblica con la formula: «vivere in una famiglia senza la figura materna o paterna potrebbe danneggiare il bambino. Non si può infatti escludere che convivere con due genitori dello stesso sesso abbia ricadute negative sui processi di sviluppo psichico e relazionale nell’età evolutiva». Tale convinzione non è tuttavia supportata da evidenze scientifiche. 

I primi studi sul benessere dei bambini cresciuti da coppie omosessuali risalgono agli anni Ottanta e sono stati puntualmente raccolti ed esaminati in un volume intitolato Lesbian and Gay Parenting, pubblicato nel 2005 dall’American Psychological Association (Apa). Come spiega Apa sintetizzando il corpus di studi, «non ci sono prove che suggeriscano che le donne lesbiche o i maschi omosessuali non siano idonei a essere genitori o che lo sviluppo psicosociale nei bambini di donne lesbiche o maschi omosessuali sia compromesso rispetto ai figli di genitori eterosessuali». Nel dettaglio, l’associazione degli psicologi ha sottolineato che «non un singolo studio ha riscontrato che i figli di genitori lesbiche o omosessuali sia svantaggiato in qualunque aspetto rispetto a quelli di genitori eterosessuali. Al contrario, le prove fino a oggi suggeriscono che gli ambienti domestici costituiti da genitori gay e lesbiche sono analoghi a quelli costituiti da genitori eterosessuali per sostenere e consentire la crescita psico-sociale dei bambini».

Un articolo pubblicato nel 2020 sulla rivista Child Development ha analizzato la produzione scientifica compresa tra il 2004 e il 2019, giungendo a conclusioni simili a quelle già sintetizzate dall’Apa. Secondo l’analisi, i figli di madri lesbiche (sulle quali esiste una letteratura più ampia e conclusiva) non differiscono dai figli di genitori eterosessuali in termini di adattamento psicologico o qualità delle loro relazioni con i genitori e gli aspetti della genitorialità ritenuti importanti per l’adattamento dei bambini, come il calore e la sensibilità, sono le stesse nelle famiglie con genitori gay, lesbiche o eterosessuali.

Le statistiche mostrano inoltre che limitare la genitorialità alle coppie eterosessuali lascia fuori dall’istituto dell’adozione molti bambini che necessitano di una famiglia: le adozioni nazionali e internazionali in Italia sono calate senza sosta nell’ultimo decennio, mentre cresce la percentuale di minori adottabili che non trovano una famiglia.

Le relazioni tra persone dello stesso sesso non durano meno di quelle eterosessuali

Un altro stereotipo duro a morire in tema di unioni tra persone dello stesso sesso è quello secondo cui queste durerebbero meno rispetto al corrispettivo eterosessuale. Questa convinzione ricalca una narrazione molto popolare fino agli anni Ottanta, quando gli esponenti della comunità Lgbt+ venivano per lo più rappresentati come individui disinibiti e costantemente in preda ai propri istinti sessuali. 

Oggi sappiamo che si tratta di un pregiudizio infondato. Una ricerca pubblicata nel 2018 ha riscontrato nelle relazioni omosessuali livelli di impegno, soddisfazione e intimità emotiva simili a quelle rilevate nelle relazioni eterosessuali, un dato in linea con quello degli studi precedenti. 

Inoltre, uno studio del 2016 ha seguito per 56 mesi un campione di coppie omosessuali ed eterosessuali, concludendo che, seppur a fronte di livelli di stress non paragonabili (dettati soprattutto dallo stigma che ancora colpisce le coppie omosessuali), le relazioni di coppie composte da persone dello stesso sesso si sciolgono quanto quelle di coppie eterosessuali (nel 27 per cento dei casi osservati nel periodo di tempo oggetto dello studio, contro il 28 percento, rispettivamente).

No, la comunità Lgbt non supporta la pedofilia

Uno dei contenuti di disinformazione che più spesso abbiamo incontrato nel nostro lavoro quotidiano di fact-checker riguarda l’associazione tra pedofilia e comunità Lgbt+. Si tratta anche in questo caso di un’insinuazione tutt’altro che recente, che ha segnato in modo doloroso il cammino dei diritti civili e che continua a inquinare il dibattito pubblico anche ai giorni nostri. Si tratta di una insinuazione del tutto infondata.

Innanzitutto, la pedofilia non è un orientamento sessuale ma una parafilia, che il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali definisce come «fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti e intensi sessualmente eccitanti che coinvolgono generalmente i) oggetti non umani, ii) la sofferenza o l’umiliazione di se stessi o del proprio partner, o iii) bambini o altre persone non consenzienti che si verificano in un periodo di almeno 6 mesi». Ciò si unisce al fatto che  la pedofilia non è in alcun modo supportata dalla comunità Lgbt+.

È falsa anche l’affermazione secondo cui pedofili e molestatori di bambini siano per la maggior parte persone omosessuali. Un’analisi condotta nel 2010 su una serie di studi dal professore dell’università della California Gregory Herek non ha trovato alcuna evidenza che confermi questo dato.

La convinzione è stata del tutto ribaltata dalle ricerche di Nicholas Groth, pioniere nel campo degli abusi sessuali su bambini, che ha teorizzato l’esistenza di due tipi di molestatori: i pedofili fissati e quelli regressivi. Mentre i primi non possono essere definiti omosessuali o eterosessuali perché «spesso trovano gli adulti di entrambi i sessi ripugnanti», quelli regressivi sono generalmente attratti da altri adulti, ma si sono statisticamente rivelati per la maggior parte eterosessuali. Secondo il Zero Abuse Project, che da anni raccoglie risorse utili a combattere gli abusi sui bambini, la maggior parte dei molestatori si dichiara eterosessuale. 

Rappresentare la comunità Lgbt nelle scuole e nei media non è un modo per “indottrinare” verso l’omosessualità

Una delle più recenti polemiche riguardanti la comunità Lgbt+ è quella innescata dalla destra americana, che ha puntato il dito contro il cosiddetto grooming, termine fortemente associato all’abuso sessuale sui minori e che fa riferimento a un insieme di comportamenti che i pedofili utilizzano per facilitare le interazioni sessuali con un bambino. 

Nel dibattito pubblico americano il termine è stato utilizzato per denunciare una presunta strategia di indottrinamento perseguita da chi espone i bambini a tematiche inclusive, nelle scuole o nei media audiovisivi (tra i principali bersagli di tale propaganda c’è ad esempio la multinazionale dell’intrattenimento Disney). La polemica è stata rapidamente cavalcata da alcuni politici americani di spicco e lo scorso 28 marzo 2022 il governatore repubblicano della Florida Ron De Santis ha firmato una legge che impone il divieto di tenere lezioni in classe sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere (la legge è stata soprannominata “Don’t say gay bill”, ovvero “la legge non dire gay”). Recentemente la polemica è sbarcata anche in Italia, condivisa dall’organizzazione ultracattolica Pro Vita & Famiglia

Gli esperti contattati dai colleghi di PolitiFact hanno affermato di non essere a conoscenza di alcuna ricerca secondo cui una maggiore esposizione a temi come l’identità di genere e la sessualità modifichi la predisposizione verso un orientamento sessuale. Al contrario, un ambiente aperto alla discussione sul tema consentirà agli alunni di comprendere in modo più sicuro e consapevole la propria identità di genere e il proprio orientamento sessuale, migliorando la qualità complessiva delle loro vite.

L’esposizione a questi argomenti «non cambia il modo in cui le persone si sviluppano», ha spiegato a PolitiFact Jennifer McGuire dell’Università del Minnesota, che studia le relazioni familiari e l’identità di genere e la salute dei giovani transgender, «cambia semmai il modo in cui si sentono riguardo al loro sviluppo». Clinton Anderson dell’American Psychological Association ha invece sottolineato che l’intera polemica evidenzia «un malinteso su come si sviluppano l’orientamento sessuale e l’identità di genere». Entrambi gli esperti sono stati d’accordo nel dire che l’incremento statistico di persone Lgbt+ non sia spiegabile con una maggiore esposizione a questi temi, ma semplicemente alla maggiore libertà nel fare coming out.

No, bisessuali e pansessuali non sono sinonimi

Puntualmente, il mese del Pride porta con sé il consueto dibattito sulla complessità della galassia Lgbt+, al cui interno convivono numerose culture riguardanti orientamenti sessuali e identità di genere, alcune delle quali possono apparire superflue a un osservatore esterno. L’esempio più abusato di tale dinamica è quello che riguarda le persone bisessuali e quelle pansessuali, il cui orientamento sessuale è considerato indistinguibile. 

Per capirne fino in fondo la differenza vale la pena riprendere la definizione dell’American Psychological Association, secondo cui l’orientamento sessuale «spazia lungo un continuum che va dall’attrazione esclusiva per il sesso opposto all’attrazione esclusiva per lo stesso sesso». Nel mezzo, però, esiste un’intera gamma di preferenze sessuali, che possono includere l’attrazione per due sessi, ma anche per individui che non si identificano nel genere maschile né in quello femminile, preferendo descrivere sé stesse come non-binarie, genderqueer, agender o bigender.

Fatta questa essenziale premessa risulterà più chiara anche la differenza tra una persona bisessuale e una persona pansessuale. Nel primo caso parliamo di individui che definiscono la loro sessualità sulla base dell’attrazione romantica per uomini e donne (non necessariamente nelle stesse proporzioni); le persone pansessuali provano invece attrazione romantica o sessuale verso un individuo al di là del suo orientamento sessuale o di genere. 

Le persone trans non sono uomini vestiti da donna (o viceversa)

Gli uomini vestiti da donna e le donne vestite da uomini sono definiti crossdresser e il loro comportamento non ha necessariamente a che fare con l’identità di genere percepita o con l’orientamento sessuale. Il crossdressing può infatti essere praticato da persone eterosessuali con il fine dell’eccitazione sessuale, ma anche per mettere in scena delle performance artistiche (come nel caso delle drag queen e dei drag king).

Gli uomini e le donne trans sono invece persone la cui identità di genere non corrisponde al genere assegnato loro alla nascita. Ciò viene tecnicamente definito “incongruenza di genere” ed è riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità, che nell’undicesima edizione dell’Icd (la classificazione internazionale delle malattie) ha smesso di considerarlo un disturbo mentale e lo ha inserito nella categoria “condizioni di salute sessuale”. Una persona trans può scegliere o meno di conformare il proprio abbigliamento alla propria identità di genere, ma questo non rappresenta un dettaglio decisivo ai fini della definizione.

No, in Italia il percorso di transizione non è reso “troppo semplice”

La transizione è il percorso che una persona transgender decide di compiere per conformare il proprio aspetto fisico al genere con cui si identifica. Il termine “transgender” non indica comunque una persona che ha compiuto una transizione fisica, ma semplicemente una persona che non si identifica nel sesso assegnatole alla nascita.

Nel 2015, la Corte Costituzionale italiana ha aperto alla possibilità di rettificare il genere anagrafico sui documenti anche senza un’operazione chirurgica, condizione fino a quel momento necessaria.

Il percorso di transizione resta comunque una possibilità a disposizione delle persone trans, che nella maggior parte dei casi vedono le proprie condizioni di vita notevolmente migliorate dalla cosiddetta “affermazione di genere”. Si tratta tuttavia di un percorso lungo e complesso, che prende in considerazione l’aspetto psicologico della transizione e ogni eventuale ripensamento della persona interessata. 

Per avviare il percorso, in Italia è necessaria una diagnosi medica che riconosca l’incongruenza di genere, accertata da uno psichiatra o da uno piscoterapeuta, che molto spesso arriva dopo una serie di sedute. Dopo aver ottenuto la diagnosi, sarà possibile recarsi da un endocrinologo per avviare la terapia mascolinizzante o femminilizzante (il cui dosaggio varia in base alle esigenze della singola persona, ma che dura sostanzialmente tutta la vita) e sottoporsi al “real life test”, un periodo di circa un anno in cui la persona inizia a vivere nel mondo come persona del sesso a cui sente di appartenere. Solo al termine di queste fasi sarà possibile chiedere al tribunale il cambio dei documenti e l’eventuale autorizzazione all’intervento chirurgico di riassegnazione del sesso, che dovrà essere espressamente consensito da un giudice per tutelare la salute psicofisica della persona.

Uno studio olandese del 2017 ha mostrato che nelle persone trans l’incongruenza di genere e l’insoddisfazione per il proprio corpo sono notevolmente migliorate dopo queste procedure e che la depressione sperimentata dai pazienti prima della procedura era per lo più causata dal disagio che sentivano nei confronti del proprio corpo. Nel 2016, un’analisi degli studi pubblicati sul tema ha rilevato che la terapia ormonale a base di estrogeni influisce positivamente sulla salute emotiva e psicologica degli individui che transitano dal genere maschile a quello femminile. I pazienti esaminati hanno riportato una diminuzione della depressione, una sensazione di maggiore felicità e fiducia nei loro corpi.

In definitiva, non sarà mai possibile escludere l’eventualità che una persona si penta del percorso di transizione effettuato, ma l’iter attualmente previsto prevede tempi lunghi e accertamenti medici in grado di garantire il diritto alla salute delle persone trans e concedere loro tutto il tempo per scegliere la terapia più funzionale allo scopo.

In conclusione

La disinformazione sulla comunità Lgbt+ continua a essere frequente nel nostro discorso pubblico e ognuno degli stereotipi sopra elencati arreca danni diretti e incalcolabili alla salute mentale di persone sulle cui spalle grava uno stigma secolare. In questi anni la scienza ha fatto molti passi avanti nella ricerca e nella divulgazione degli orientamenti sessuali e delle identità di genere, anche grazie alle battaglie della comunità Lgbt+ che hanno portato a una depatologizzazione di quella che oggi sappiamo essere una «variante naturale del comportamento umano».

Oggi sappiamo che l’omosessualità non è una malattia né una moda, che la comunità Lgbt+ non ha nulla a che fare con la pedofilia e che parlare di tematiche inclusive nelle scuole non è un modo per indottrinare le giovani menti. Possiamo altresì affermare con certezza che le persone trans non sono dei “travestiti” e che la transizione di genere è un percorso duro e complesso, che però può salvare delle vite. Sul tema ci sono molte altre cose che non sappiamo o che dall’esterno potrebbero sembrare controintuitive. E anche a questo serve il mese del Pride, per ribadire che non abbiamo bisogno di capire sempre tutto per trattarci con dignità e rispetto.

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