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I tamponi molecolari per Sars-Cov-2 e i falsi positivi: che cosa c’è di vero

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20 novembre 2020
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Tra le argomentazioni più in voga dei negazionisti della pandemia da Covid-19, in Italia (si veda ad esempio questo articolo che è stato segnalato a Facta il 17 novembre 2020) come all’estero, c’è l’idea che i numeri dei contagi forniti dalle autorità siano in realtà gonfiati da un eccesso di falsi positivi, ovvero di persone positive al virus Sars-Cov-2 ma non infette dal virus. 

Ma c’è qualcosa di vero? Esistono in questa pandemia dei falsi positivi e, se sì, quanto sono importanti? Abbiamo deciso di approfondire la questione e di spiegare come funzionano i tamponi molecolari.

Il tampone molecolare è specifico per il Sars-Cov-2

Il tampone molecolare si basa su una tecnologia nota come Pcr (polymerase chain reaction, ovvero reazione a catena della polimerasi), inventata nel 1983 dal biochimico statunitense Kary Mullis, che grazie a questa scoperta vinse il premio Nobel nel 1993. 

Come abbiamo già approfondito, la Pcr è fondamentalmente una “fotocopiatrice” di Dna, capace di moltiplicare milioni di volte una singola e specifica sequenza genetica, rendendo quindi facile identificare e studiare un singolo frammento genetico anche se disperso insieme a moltissimi altri in un campione biologico. La Pcr è quindi ormai da oltre trent’anni una tecnica standard di biologia molecolare, ben conosciuta e utilizzata, tra le altre cose, anche per diagnosticare malattie infettive (e no, l’inventore della Pcr non ha mai detto che sia inutile a questo scopo). 

L’estrema specificità di questa tecnica per il genoma del virus viene spesso messa in dubbio dai negazionisti, ma finora tutte le teorie per dimostrarlo si sono rivelate false. Per conoscere quelle che abbiamo affrontato e perché sono da ritenersi prive di fondamento scientifico, qui, qui, qui ci sono alcuni articoli di fact-checking che abbiamo pubblicato. 

Ricordiamo, ad esempio, che quando un kit di tamponi molecolari viene messo in commercio deve essere controllato perché non dia risultati positivi con altri virus respiratori, sia coronavirus che di altro genere: per alcuni esempi pubblicati di questi controlli si vedano per esempio questi quattro studi. L’unico virus umano noto con cui il tampone da Sars-Cov-2 potrebbe dare un falso responso è il coronavirus della Sars, responsabile di un’epidemia tra il 2002 e il 2004: tale virus però è scomparso dal maggio 2004.

The Walking Dead: ci sono dei positivi quando il virus è morto?

Una seconda ipotesi, esposta ad esempio dal virologo Giorgio Palù in un’intervista che abbiamo analizzato precedentemente, è quella per cui il tampone rileverebbe sì il materiale genetico del virus Sars-Cov-2, ma che spesso si tratterebbe non di virus vitale e infettivo bensì di frammenti di virus “morto”. In questo caso c’è un fondo di verità, ma bisogna inserire la questione nel giusto contesto.

È vero che il tampone molecolare identifica la presenza di alcuni tratti del materiale genetico del virus, e non necessariamente di un virus infettivo e capace di replicarsi. L’unico test capace di verificare quest’ultimo aspetto è l’isolamento e la coltivazione del virus dal materiale biologico del paziente: una procedura comune nella ricerca scientifica ma che richiederebbe risorse e tempi del tutto incompatibili con la gestione della pandemia (ogni campione deve essere isolato, posto in una coltura cellulare in un laboratorio di terzo livello di biosicurezza e osservato per alcuni giorni per verificare la riproduzione del virus nelle cellule). 

Questo significa che in teoria sarebbe possibile avere un tampone positivo anche in assenza di particelle virali infettive ma solo di frammenti del loro genoma. Ed è vero: a volte succede, come mostrano alcuni studi (ad esempio qui, qui, qui) e come abbiamo spiegato in un nostro approfondimento. Gli stessi studi mostrano però che questo fenomeno si presenta quasi esclusivamente nei pazienti che hanno già avuto un’infezione sintomatica da Sars-Cov-2 e che mantengono frammenti virali nei loro tessuti dopo l’infezione. Non è quindi un problema che rischia di alterare significativamente il conteggio dei positivi. Invece è rilevante tenerne conto se vogliamo usare il tampone come criterio per ritenere un paziente Covid-19 convalescente ancora infettivo o meno. 

A questo si collega la questione, spesso citata tra gli “scettici” del tampone, dei cicli di amplificazione. Detta in modo molto semplificato, quante volte dobbiamo “fotocopiare” il genoma virale prima di rilevarlo come positivo. Più cicli servono, meno virus è presente nel materiale di partenza. Se un tampone è positivo solo dopo un numero di cicli molto alto, rischia in effetti di essere un falso positivo, o di indicare come positiva una persona che ha solo un ridotto numero di frammenti inattivi di virus. Un articolo del New York Times pubblicato ad agosto 2020 ha messo in discussione la validità dei tamponi a causa di questo aspetto in quanto molti test statunitensi possono indicare un risultato positivo anche dopo 40 cicli, una soglia molto alta. In Europa, secondo le linee guida Ecdc, la soglia dovrebbe essere sui 35 cicli.

Uno studio pubblicato il 28 settembre 2020 su Clinical Infectious Diseases mostra effettivamente una relazione tra il numero di cicli e la contagiosità: sopra i 30 cicli diventa difficile isolare il virus infettivo dal tampone. Come però spiega un articolo pubblicato il 12 agosto 2020 sul Journal of Clinical Microbiology dal virologo Matthew J. Binnicker della Mayo Clinic di Rochester (Minnesota), è difficile confrontare tamponi diversi con questo parametro, e un campione può dare una bassa quantità di virus apparente solo perché è stato fatto in modo poco accurato e non perché la persona possieda effettivamente una carica virale insignificante.

I veri falsi positivi

Abbiamo quindi visto sopra che i tamponi utilizzati oggi per i testi sono del tutto specifici per il virus Sars-Cov-2. Abbiamo però anche notato che possono a volte indicare come positiva una persona non più contagiosa, ma solo a malattia già terminata e quindi, con ogni probabilità, dopo essere stati già calcolati come positivi. Quindi non c’è in assoluto la possibilità che si parli di falsi positivi? In realtà non è così. 

Non è facile capire quale sia, in situazioni reali, la specificità dei tamponi, ovvero la probabilità che un test su un soggetto non infetto dal virus dia effettivamente un risultato negativo. Abbiamo visto che il test Pcr di per sé è molto specifico, identificando con certezza solo le sequenze del genoma del virus Sars-Cov-2 e non altre. Ma l’altissima sensibilità della Pcr, che è capace di identificare anche pochissime molecole di genoma virale, la rende anche suscettibile alla contaminazione. I reagenti e i materiali possono venire accidentalmente a contatto con una superficie o aerosol contenenti materiale genetico del virus, per esempio, magari risultante da Pcr precedenti. 

Le stime fatte negli anni precedenti sui tamponi per altri virus con genoma a Rna, quindi la cui procedura di test è paragonabile a quella dei tamponi per Sars-Cov-2, hanno dato risultati di specificità variabili da 100 per cento a 84 per cento, con un valore mediano intorno al 97,7 per cento. Un’analisi in laboratorio condotta dall’Università di Cambridge (Regno Unito) sui test per Sars-Cov-2 ha misurato un valore di specificità in una forbice tra 99,91 per cento e 97,4 per cento. 

I dati di alcuni Paesi in cui la percentuale di positivi al Covid-19 è molto bassa possono dare un’idea di quale sia, nel peggiore dei casi, la specificità del tampone per Sars-CoV-2. Ipotizziamo, per assurdo, che i risultati dei seguenti Paesi siano tutti falsi positivi. In Vietnam per esempio, al 18 novembre 2020, sono stati registrati 1.288 casi ufficiali ed effettuati 1,26 milioni di test: corrisponderebbe a una specificità del 99,9 per cento. In Australia spesso (ad esempio tra aprile e giugno 2020, o dopo settembre 2o2o) i test hanno dato una percentuale di positivi sotto lo 0,1 per cento; in totale con 27.756 casi su 9 milioni e 440.000 test, se si considerassero per assurdo tutti falsi positivi, corrisponderebbero a una specificità dello 99,7 per cento. In Italia a luglio la percentuale di test positivi sui totali era intorno a 0,4-0,5 per cento: una specificità, nel peggiore dei casi, del 99,5 per cento. 

Un problema statistico

Potrebbe sembrare un dato rassicurante, ma c’è una complicazione, e per capirla ci tocca entrare un po’ nella sottile arte della statistica. 

Partiamo da una domanda apparentemente ovvia. Se un test ha una specificità del 90 per cento, vuol dire che il 90 per cento dei positivi sono veri positivi? Sembra scontato, ma la risposta è no. La percentuale di falsi positivi sul totale può essere molto più alta.

Confusi? È normale: è un problema statistico sottile, noto come fallacia del tasso di base (base rate fallacy, in inglese). Ma diventa subito chiaro con un diagramma e un esempio. Immaginiamo di avere un test con una specificità del 99 per cento, ovvero in cui una volta su cento un test su un negativo risulterà, per errore, positivo. Sottoponiamo quindi mille persone al test. E — questo è il dato importante, come vedremo fra poco — poniamo che tra queste vi siano solo 10 veri positivi. 

Diagramma che spiega come la fallacia del tasso di base possa farci sottovalutare il numero di falsi positivi. Un test con una specificità del 99 per cento fa pensare che i falsi positivi siano sempre e solo l’un per cento. Ma questo test può portare a un numero di falsi positivi pari a metà del totale, se i veri positivi sono pochissimi rispetto a tutti gli individui sottoposti al test – Realizzato da Facta

 

A test finito, troveremo i nostri 10 veri positivi. Ma i 990 negativi non risulteranno tutti negativi. Abbiamo detto che uno su cento risulterà falso positivo: su 990 negativi, quindi, ci aspettiamo 9,9 falsi positivi, che arrotondiamo a 10. Quindi a fine giornata abbiamo 10 veri positivi e 10 falsi positivi: i falsi positivi sono la metà dei positivi totali. In altre parole, in questo esempio se il vostro test è positivo avete solo il 50 per cento di probabilità di essere davvero infetti dal virus. 

Il problema è che, in questo caso, i veri infetti sono pochi, e i non infetti sono moltissimi: la percentuale di falsi positivi dipende da questi ultimi. Tanto meno veri infetti ci sono, tanto più i falsi positivi inquinano il totale, anche se il test di per sé ha una specificità altissima. Questo calcolatore del British Medical Journal vi permette di giocare coi numeri e vedere qual è la probabilità di essere veri o falsi positivi a seconda di vari parametri.

Ma allora i complottisti hanno ragione?

Non proprio. È  impossibile che questo effetto possa davvero gonfiare i numeri della pandemia in corso, come suggerirebbe ad esempio questo video che è stato segnalato alla redazione di Facta via Whatsapp il 10 novembre 2020. 

Innanzitutto i test non sono fatti casualmente sulla popolazione, ma su persone che già a priori hanno una probabilità elevata di essere infetti, perché sintomatici o perché venuti a contatto con altri positivi. In secondo luogo, se fossero quasi sempre falsi positivi, vedremmo sempre la stessa (bassissima) percentuale di positivi, sul totale. La percentuale di positivi sui tamponi totali invece sale molto man mano che si diffonde il contagio e il tracciamento diventa sempre più difficile, come hanno scritto i nostri colleghi di Pagella Politica

Come ci ha comunicato via email il 13 novembre 2020 il matematico e virologo Jordan Skittrall, ricercatore del gruppo di Dinamica delle malattie dell’Università di Cambridge e principale autore di uno degli studi che ha misurato i falsi positivi nei tamponi per Sars-Cov-2, «è improbabile che un cambiamento epidemiologico significativo nel tasso di positività, come vediamo adesso in Europa, dipenda da un aumento di falsi positivi.»

Questo fenomeno statistico è rilevante solo quando gli infetti sono pochissimi sul totale del campione, ovvero quando il tracciamento è eccellente e la diffusione del contagio è molto bassa. In questi casi, come ha precisato sempre Skittrall, «il nostro lavoro mostra che è importante considerare che molti dei (molto pochi) positivi possano essere falsi positivi». Per rimediare a questo, lo studio di Skittrall e colleghi consiglia di ripetere i test ai positivi, qualora da altri fattori si deduca che le chances di un vero contagio siano scarse. La probabilità che due test diano di fila un risultato falso positivo è, infatti, assolutamente minuscola (per un test con una specificità del 99 per cento, si tratterebbe di un caso su diecimila).

In conclusione

I tamponi molecolari sono al momento il test più efficace, specifico e accurato per rilevare l’infezione da Sars-Cov-2 e monitorare quindi la pandemia di Covid-19. Il test rileva il virus Sars-Cov-2 ed è quindi altamente specifico. Come tutti i test non è perfetto, specie in condizioni di lavoro reali e non ideali, e può quindi dare un piccolo numero di falsi positivi. Questo numero però diventa importante solo quando i contagiati totali sono pochissimi e la percentuale di positivi sul totale dei test è bassissima, e quindi non può essere responsabile del numero di positivi attuale. Si tratta semmai di un motivo per chiedere, quando è possibile, una infrastruttura di test più capillare che possa confermare i positivi nel momento in cui la probabilità di un falso positivo non è più trascurabile.

Al momento i falsi positivi non rappresentano un problema. Al contrario, il vero problema è che non stiamo riuscendo a tracciare tutti i positivi. I nostri colleghi di Pagella Politica hanno spiegato che durante la prima ondata abbiamo sottostimato non solo i positivi ma perfino i decessi e che il tracciamento dei nuovi casi è in crisi.

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