Logo
Questo articolo ha più di 36 mesi

Dopo la pandemia: che cosa significa che Sars-CoV-2 diventerà endemico

[…]

17 novembre 2021
Condividi

Come finirà la pandemia di Covid-19? Dalla comparsa di Sars-CoV-2 e fino all’arrivo della variante delta, non era insensato aspettarsi che prima o poi avremmo fermato il virus. La speranza era che i vaccini potessero permetterci di raggiungere l’immunità di gregge, riducendo quindi il contagio fino a zero (o quasi). In realtà già all’epoca c’erano dubbi sulla nostra capacità di eliminare il virus: un sondaggio di Nature pubblicato a febbraio 2021, prima ancora della diffusione della variante delta, mostrava già che l’opinione comune tra gli esperti era che Sars-CoV-2 fosse destinato a rimanere. Con la variante delta, l’obiettivo dell’immunità di gregge è diventato praticamente irraggiungibile. È vero che i vaccini finora approvati riducono la diffusione del virus, anche nonostante la variante delta, ma non la eliminano al punto da permetterne la scomparsa (ricordiamo che comunque i vaccini restano estremamente efficaci nell’abbattere la probabilità di Covid-19 grave e decesso).

Lo scenario che ora ci aspetta quindi è quello di una convivenza con il virus, mitigata il più possibile dai vaccini: un mondo in cui Sars-CoV-2 sarà endemico, ovvero diffuso stabilmente nella popolazione. Questo significa che Sars-CoV-2 non sarà più una minaccia per la salute? Come avverrà la transizione tra pandemia ed endemicità? Possiamo già abbassare la guardia? Che cosa dobbiamo aspettarci per la salute pubblica e la nostra vita quotidiana? Scopriamolo insieme.

Che cosa significa endemico

Per gli epidemiologi, un virus viene definito endemico quando è presente in una popolazione con un tasso che rimane all’incirca costante: al netto delle oscillazioni stagionali, la sua presenza né svanisce né si diffonde fuori controllo. È quello che succede per i virus respiratori del raffreddore comune o dell’influenza, o per altri virus come quello dell’herpes. Oggi Sars-CoV-2 non è endemico: il numero di infetti, come sappiamo, oscilla – nel momento in cui scriviamo – ancora violentemente e in modo imprevedibile, secondo diverse “ondate”.

Al concetto di endemicità spesso è stato associata, più o meno implicitamente, una situazione in cui possiamo “convivere con il virus”, ritornando a qualcosa di simile alla normalità. Le due cose non sono, però, necessariamente correlate: un virus endemico non è sempre innocuo o tollerabile. Hiv, il virus che causa Aids, è endemico sul pianeta, ma è comunque una minaccia per la salute; nel sud dell’Africa il suo livello di endemicità è talmente elevato da essere un grave problema di salute pubblica, tanto da essere la prima causa di morte tra gli adolescenti.

A questo si collega anche un altro mito, che è stato spesso diffuso durante la pandemia, talvolta anche da fonti autorevoli: non è affatto garantito che un virus si evolva per diventare meno pericoloso. Sars-CoV-2 si è evoluto diventando più capace di trasmettersi, ma la sua capacità di causare la malattia non è diminuita (e anzi potrebbe essere aumentata). Non è su questo, quindi, che possiamo contare per un ritorno alla normalità.

L’endemicità in sé, quindi, non rende innocuo Sars-CoV-2: il punto è gestire una situazione di endemicità senza che la Covid-19 torni a essere un’emergenza.

Da emergenza a “influenza”

Che cosa significherà una Covid-19 endemica è stato previsto a febbraio 2021 su Science da un team di biologi della Emory University di Atlanta (Stati Uniti). In questo scenario Sars-CoV-2 potrebbe aggiungersi ai quattro coronavirus già endemici nella specie umana, e che causano malattie respiratorie simili al raffreddore. In futuro le persone incontreranno per la prima volta Sars-CoV-2 da bambini, sviluppando una malattia leggera o comunque gestibile nella stragrande maggioranza dei casi. Questa infezione nell’infanzia genererà un’immunità, magari parziale, ma sufficiente a mitigare le principali conseguenze della malattia; immunità rinforzata ogni volta che, nel corso della vita, il virus viene incontrato di nuovo.

L’immunità così conseguita renderebbe la Covid-19 una nuova malattia simil-influenzale, pericolosa solo per persone con un sistema immunitario indebolito. I vaccini ovviamente potrebbero accelerare e rafforzare questo stato di cose. Non è ancora chiaro però se la Covid-19 diventerà una malattia stagionale, tipica delle stagioni fredde, o se dovremo tenerla d’occhio tutto l’anno.

È possibile che qualcosa del genere sia già avvenuto in passato con un altro coronavirus: è stato ipotizzato che il coronavirus HCoV-OC43 sia entrato nella popolazione umana durante una pandemia avvenuta tra 1889 e 1891. Chiamata «influenza russa» all’epoca, aveva sintomi diversi dall’influenza e molto simili a Covid-19, dalla perdita dell’olfatto, ai dolori, alla tosse, alle trombosi. In parallelo, i dati genetici ci dicono che HCoV-OC43 avrebbe iniziato a infettare gli esseri umani verso il 1890.

Tuttora il coronavirus HCoV-OC43, benché oggi sia considerato uno dei comuni virus del raffreddore, non è del tutto benigno: focolai in popolazioni fragili, come i residenti in case di riposo, possono avere conseguenze gravi, con una letalità dell’8 per cento. Se questa ipotesi fosse confermata, ci direbbe qualcosa su come potrebbe essere un futuro con Sars-CoV-2 endemico: un virus respiratorio come tanti, ma a cui dovranno fare sempre attenzione i soggetti più fragili.

Non è però detto che le cose siano così semplici. L’evoluzione delle varianti ci ha insegnato che Sars-CoV-2 riesce a cambiare abbastanza rapidamente, e sappiamo che altri coronavirus umani riescono a evolvere abbastanza da sfuggire all’immunità nel giro di 8-17 anni. Se valesse lo stesso per Sars-CoV-2 questo potrebbe significare che, oltre ai richiami necessari per l’affievolirsi della risposta immunitaria, potrebbe essere necessario aggiornare regolarmente i vaccini all’ultima “versione” del coronavirus, un po’ come accade annualmente per l’influenza.

Un altro problema è la capacità di Sars-CoV-2 di infettare altre specie, come avevamo visto l’anno scorso nel caso dei visoni. Su Nature, un articolo pubblicato il 26 agosto 2021, che raccoglie che cosa sappiamo (e cosa no) sul destino della Covid-19, ha avvertito che la circolazione tra gli animali può permettere al virus di evolversi indipendentemente, e di ritornare tra gli esseri umani in una variante diversa da quella verso cui avremmo sviluppato immunità con i vaccini e l’infezione.

Una transizione da gestire con cura

Gestire l’uscita dall’emergenza per arrivare a una convivenza accettabile con Sars-CoV-2, in cui la diffusione del virus non causi più un drammatico impatto sanitario, richiede cautela e realismo. È facile, dopo due anni di pandemia e una campagna vaccinale che a novembre 2021 in Italia ha superato il 70 per cento della popolazione, pensare che siamo vicini all’endemicità e che possiamo entrare nell’ordine di idee della normalità. In realtà siamo ancora lontani da questo obiettivo.

Il giornalista scientifico Ed Yong ha riassunto così la questione: «I vaccini sono la miglior protezione per gli individui, ma le società non possono pensare ai vaccini come la loro unica difesa». Finché rimarranno bacini significativi, anche se minoritari, di persone non vaccinate, in assenza di ulteriori misure di contenimento (che devono riguardare almeno in parte anche i vaccinati) la capacità di diffondersi della variante delta è ancora tale da causare crisi sanitarie. Lo studio di febbraio 2021 sulla transizione verso l’endemicità citato precedentemente avvertiva già che, fino a quando non è stata raggiunta un’immunità praticamente globale, le misure precauzionali per rallentare la diffusione del virus sono necessarie per evitare decessi. Uno studio pubblicato su Lancet il 27 ottobre 2021 ha suggerito che l’allentamento delle misure di sicurezza deve essere orchestrato in armonia con la campagna vaccinale, e che «la vaccinazione da sola, in assenza di interventi non farmaceutici [restrizioni quali distanziamento sociale e mascherine, N.d.R.] potrebbe non essere sufficiente a controllare la variante delta, anche con un’alta copertura vaccinale».

I fatti, purtroppo, stanno dando ragione ai timori della comunità scientifica. Vari Paesi europei come la Germania o il Regno Unito, nonostante una discreta copertura vaccinale (superiore al 65 per cento), sono di nuovo a rischio di una crisi sanitaria. Anche l’Italia, che vanta una discreta percentuale di completamente vaccinati, affronta al momento una risalita di ricoveri in terapia intensiva.

Allentare le misure oggi rischia di far circolare il virus in modo particolarmente ampio tra i bambini, la principale fascia di popolazione ancora non vaccinata. Sebbene i bambini siano, in generale, la categoria meno a rischio di ricoveri e decessi, la Covid-19 non è innocua per loro. In particolare una minoranza significativa (stimata dal 4 al 10 per cento) rischia di subire conseguenze a lungo termine. La vaccinazione in questa fascia d’età sembra quindi molto importante: al momento la European medicines agency (Ema) sta valutando l’approvazione dei vaccini Pfizer e Moderna per la fascia d’età tra 5 e 11 anni.

Un discorso per tutto il mondo

Il 27 ottobre 2021, il medico e ricercatore dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) Gabriel M. Leung ha scritto su Lancet che «la natura delle pandemie impone che una popolazione sarà al sicuro solo quando ogni popolazione sarà al sicuro». In altre parole, anche se i Paesi occidentali probabilmente raggiungeranno una situazione endemica abbastanza presto, la pandemia non potrà dirsi conclusa finché non sarà conclusa dappertutto. Questo perché, finché ci saranno popolazioni in cui il virus potrà replicarsi indisturbato, gli sarà permesso di evolvere nuove varianti che possono mettere a rischio l’immunità faticosamente ottenuta con i vaccini. È quanto avvenuto con la variante delta, nata durante la prima ondata di pandemia in India, nell’autunno 2020.

Come avevamo discusso su Facta parlando delle terze dosi, esiste una enorme diseguaglianza vaccinale: per esempio in Africa, all’11 novembre 2021, solo poco più del 6 per cento della popolazione è stata completamente vaccinata contro la Covid-19. Avevamo anche visto come la comunità medico-scientifica consideri prioritario colmare al più presto questo divario, non solo per una responsabilità etica nei confronti dei Paesi più in difficoltà, ma proprio per evitare l’evoluzione di nuove varianti.

La transizione verso l’endemicità in ogni caso non sarà globale ma a macchia di leopardo. Ogni Paese ci arriverà con tempi differenti, che dipenderanno dalla combinazione di campagna vaccinale, immunità della popolazione e disponibilità futura di vaccini per i richiami o contro le varianti. Secondo Maria Van Kerkhove, epidemiologa che coordina la risposta dell’Oms alla pandemia, il 2022 è l’anno in cui lentamente dovremmo portare il virus sotto controllo; ma se i Paesi più vaccinati potrebbero entrare in questo regime già verso l’inizio del 2022, molti altri si troveranno a combattere con la pandemia più a lungo.

La società post-pandemica

Quale sarà il peso sanitario della Covid-19 in questa situazione? Non è ancora chiaro, anche perché in realtà dipenderà dalle nostre scelte. Saremo noi, come società e come politica, a decidere quale sarà il livello accettabile di decessi, di ricoveri in terapia intensiva e di altri problemi di salute pubblica che potremo accettare in cambio di una nuova normalità, più o meno tesa, assieme alla Covid-19. La speranza di diversi ricercatori è che la Covid-19 possa diventare, grazie ai vaccini e all’immunità collettiva (e magari anche a terapie farmacologiche) una malattia paragonabile per gravità all’influenza. Va chiarito che non si tratta di un carico sanitario irrilevante: l’influenza in Italia causa da 7.000 a 25.000 decessi circa all’anno. A questo si deve aggiungere l’incognita delle conseguenze a lungo termine della Covid-19.

Per tenere sotto controllo la Covid-19 sarà necessario mantenere e rafforzare un sistema di monitoraggio. Secondo Samuel Scarpino, direttore del Pandemic Prevention Institute della Fondazione Rockefeller, dovremo integrare test regolari, monitoraggio delle acque reflue, sequenziamento genetico del virus, analisi delle ricerche su Google e ogni altro mezzo per tracciare l’andamento di Sars-CoV-2 a livello globale e locale, nonché per identificare futuri virus che minacciano di essere pericolosi.

Le nostre abitudini potrebbero cambiare permanentemente. È plausibile che il lavoro da casa possa restare molto più comune di prima anche dopo la pandemia, e si discute di come anche precauzioni quali le mascherine possano restare, in qualche modo, parte delle nostre abitudini, specie nei mesi freddi o se abbiamo sintomi respiratori.

In conclusione

È ormai probabile che Sars-CoV-2 e la Covid-19 resteranno con noi ancora per molto tempo, forse per il resto delle nostre vite. L’unico modo per poter convivere con il virus è garantire che quasi tutta la popolazione abbia un’immunità abbastanza robusta da mitigare il più possibile le conseguenze. Per questo scopo la copertura vaccinale dev’essere la più ampia possibile: lo scenario sperato è che, grazie ai vaccini e alle terapie, Sars-CoV-2 diventi uno dei virus respiratori stagionali, paragonabile per impatto complessivo a un’influenza pesante, ma non sia più capace di causare emergenze sanitarie.

Questo non significa che potremo tornare a vivere esattamente come prima. Finché rimarranno percentuali significative di persone prive di ogni immunità dal virus, perché non vaccinate o esposte, la variante delta rischia di causare focolai pericolosi dal punto di vista del carico sanitario. È possibile che dovremo cambiare permanentemente alcune abitudini, dall’uso della mascherina al lavoro da casa. Sarà con ogni probabilità essenziale un monitoraggio continuo, anche più capillare dell’attuale, della diffusione e dell’evoluzione del virus. Il divampare della pandemia in Paesi che hanno scarso accesso ai vaccini pone costantemente il rischio dell’evoluzione di nuove varianti che, se capaci di sfuggire all’immunità, potrebbero minacciare anche i Paesi più vaccinati.

Quale sarà la vita dopo la pandemia dipenderà anche da quale sarà l’equilibrio tra carico sanitario e normalità che riterremo accettabile. Un equilibrio che dipende da numerosi fattori, molti dei quali non prevedibili: dalla disponibilità di nuovi vaccini e terapie, all’impatto della Covid-19 a lungo termine sulla salute, all’evoluzione del virus e della sua capacità di diffondersi. In ogni caso, per uscire dall’emergenza e arrivare a un nuovo equilibrio è fondamentale, in questo momento, non illudersi che sia già tutto finito. Contenere la pandemia e mantenere le misure precauzionali mentre si tenta di concludere la campagna vaccinale è fondamentale per arrivare a una nuova normalità senza passare per una nuova stagione di decessi e crisi delle strutture sanitarie.

Potrebbero interessarti
Segnala su Whatsapp