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Spotify ha un problema con la disinformazione

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20 gennaio 2022
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Come abbiamo più volte raccontato in passato, la pandemia di coronavirus ha spinto le piattaforme digitali a intensificare la lotta contro la disinformazione online, accelerando di fatto un processo iniziato all’indomani dell’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, nel 2016. Gli anni successivi hanno poi visto svilupparsi una riflessione generale sul ruolo dei social media e sulla responsabilità editoriale dei contenuti da questi ospitati.

Le strategie approntate dai colossi digitali per rispondere al crescente bisogno di moderazione, manifestato dagli utenti e dagli esperti, sono state molto diverse tra loro e non tutte hanno sortito gli effetti sperati, come abbiamo anche sottolineato nella lettera aperta indirizzata a YouTube da parte dei fact-checker di tutto il mondo. Ma alcuni mezzi di comunicazione si sono ultimamente rivelati più esposti di altri alle dinamiche della disinformazione: tra questi troviamo i podcast, audio digitali consultabili on demand attraverso apposite applicazioni e progettati in modo tale da poter essere fruiti come una trasmissione radiofonica o come una serie a puntate.

L’anno 2022 non è iniziato col piede giusto per i protagonisti del settore e in particolare per Spotify, piattaforma di streaming musicale che il 10 gennaio 2022 è stata la destinataria di una lettera aperta firmata da 270 tra scienziati, professori universitari, medici e operatori sanitari provenienti perlopiù dal Nord America, che chiedevano alla compagnia svedese di «stabilire immediatamente una policy pubblica e chiara» che consentisse di moderare i contenuti di disinformazione dedicati «alla pandemia di Covid-19» presenti sulla piattaforma.

La vulnerabilità di Spotify alle dinamiche della disinformazione è un fenomeno in parte strutturale, che ha a che fare con la natura stessa dello strumento podcast e con la difficoltà tecnica nel verificare affermazioni trasmesse attraverso audio, ma è anche il frutto di una serie di scelte di mercato rivelatesi più attente al profitto che all’accuratezza dei contenuti. Il caso più eclatante in tal senso riguarda Joe Rogan, popolare comico americano e autore del podcast oggi più seguito negli Stati Uniti, ma anche una delle più prolifiche fonti di teorie del complotto attualmente in circolazione.

Il caso Joe Rogan

Considerato uno dei pionieri del podcasting a livello internazionale, da ormai 11 anni Joe Rogan conduce “The Joe Rogan Experience”, un podcast – inizialmente settimanale, ora pubblicato con cadenza quotidiana – nel quale l’attore comico racconta l’attualità con un taglio graffiante e provocatorio, aiutato da un ospite diverso per ogni puntata.

In diverse circostanze, tuttavia, tale racconto è risultato pesantemente viziato da notizie false, in alcuni casi anche potenzialmente pericolose per la salute degli ascoltatori. Nella puntata del 23 aprile del 2021, ad esempio, Rogan aveva incoraggiato i giovani «in salute» a non sottoporsi alla vaccinazione contro il coronavirus e appena qualche giorno dopo aveva affermato – contro ogni evidenza scientifica – che i lockdown imposti per prevenire la diffusione della Covid-19 avevano «peggiorato le cose», favorendo di fatto i contagi all’interno delle mura domestiche. Nella puntata del 14 maggio Rogan si era invece detto d’accordo con la teoria secondo cui «i microchip vengono iniettati nel braccio per vedere se hai la Covid-19», citata dal conduttore radiofonico Alex Jones, noto sostenitore di teorie del complotto propagandate dall’estrema destra e suo ospite qualche mese prima.

Nel giugno del 2021 Rogan ha dedicato un intero episodio del suo podcast alla promozione dell’ivermectina come cura contro la Covid-19, nonostante non esista alcuna prova che questo sia un trattamento sicuro ed efficace, mentre a luglio ha diffuso la falsa notizia secondo cui l’amministrazione Biden pianificava un monitoraggio sugli sms dei cittadini come misura di contrasto alla disinformazione. Ad agosto Joe Rogan ha paragonato il green pass ad una dittatura, negando al contempo l’efficacia dei vaccini nel prevenire la malattia e definendo questi una «terapia genica» (qui avevamo spiegato perché non è vero), mentre negli ultimi mesi se l’è presa ancora con il presidente Biden, colpevole secondo Rogan di aver finto la vaccinazione contro il coronavirus, di aver impedito agli americani di ottenere gli anticorpi monoclonali e di voler introdurre negli Stati Uniti il sistema di credito sociale cinese.

Presa singolarmente, ognuna di queste affermazioni violerebbe apertamente la policy di Spotify – sintetizzata da un portavoce della compagnia alla Cnn nella formula «Spotify vieta i contenuti che promuovono pericolosi contenuti falsi, ingannevoli o fuorvianti sulla Covid-19, che possono causare danni offline e/o rappresentare una minaccia diretta per la salute pubblica» – e sarebbe dovuta costare a Rogan la rimozione definitiva dalla piattaforma. Ci sono due piccoli particolari: gli episodi del podcast sono ancora tutti online e, soprattutto, dal 1 settembre 2020 “The Joe Rogan Experience” è un podcast di proprietà di Spotify, che lo ha acquistato in esclusiva per una cifra che secondo il Wall Street Journal si aggirerebbe sui 100 milioni di dollari.

Una zona franca per la disinformazione

A scatenare la reazione della comunità scientifica – e la successiva lettera indirizzata a Spotify – è stato proprio l’episodio di “The Joe Rogan Experience” del 31 dicembre 2021, nel quale il conduttore ha scelto di ospitare il dottor Robert Malone, divenuto negli ultimi due anni uno dei guru di quella parte della popolazione che mette in dubbio la sicurezza e l’efficacia dei vaccini.

Noto in Italia soprattutto per la gaffe di Massimo Cacciari, che in una puntata della trasmissione Carta Bianca lo aveva definito «il premio Nobel Melòn», Robert Malone non è esattamente un premio Nobel, ma è comunque uno degli scienziati che tra il 1989 e il 1990 avevano lavorato sulla tecnica, utilizzata ancora oggi, per iniettare l’Rna all’interno delle cellule usando i lipidi. Durante la pandemia di coronavirus, Malone si è reso protagonista di una lunga campagna di disinformazione dedicata ai presunti danni a lungo termine dei vaccini contro il coronavirus – del tutto esclusi dall’assoluta maggioranza della comunità scientifica–, tesi esposte il 31 dicembre anche nel podcast di Rogan.

L’intervista di Joe Rogan a Malone è stata immediatamente rimossa da YouTube – dove Rogan pubblica ancora alcuni spezzoni delle sue trasmissioni – decisione che ha seguito di appena 48 ore quella assunta da Twitter, che il 29 gennaio aveva sospeso l’account del medico per la violazione delle linee guida sulla disinformazione medica della piattaforma. L’episodio di “The Joe Rogan Experience” con Robert Malone sopravvive invece su Spotify, che ancora una volta non ha preso provvedimenti contro le affermazioni problematiche mandate in onda dal suo conduttore di punta.

Del resto, come abbiamo precisato poco sopra, l’espulsione di Rogan da Spotify andrebbe contro gli interessi della compagnia stessa, e non solo a causa dei 100 milioni di dollari spesi per assicurarsi l’esclusiva. Come ha spiegato il responsabile dell’ufficio finanziario di Spotify nella relazione trimestrale pubblicata ad aprile 2021, l’attività di podcasting rappresenta ormai un mercato irrinunciabile per l’azienda (un business da quasi 700 milioni di dollari ogni anno), che dall’arrivo di Rogan ha moltiplicato l’engagement e attratto una maggiore quota di investimenti, contribuendo in modo decisivo al sorpasso di Spotify su Apple Podcast, la piattaforma di podcasting targata Apple.

Dall’altra parte, Rogan è ben consapevole del suo potere contrattuale, come testimonia ad esempio questo spezzone della trasmissione in cui invita una sua ospite a rivolgere attacchi alle persone transgender, perché «puoi dire ciò che vuoi, siamo su Spotify». Quanto alla sua attività di disinformazione, il conduttore ha più volte ribadito che la sua trasmissione non dovrebbe essere considerata una «fonte rispettabile di informazione». Più facile a dirsi che a farsi, dal momento che, come sottolineato dal Washington Post nello scorso mese di maggio, «con un pubblico stimato in 11 milioni di ascoltatori per episodio, Rogan raggiunge quasi quattro volte più persone dei presentatori via cavo in prima serata come Sean Hannity di Fox News Channel e Rachel Maddow di MSNBC».

La doppia morale di Spotify

Eppure, come anticipato, nel corso della pandemia Spotify si è dotato di una nuova policy sulla disinformazione medica piuttosto severa. A farne per primo le spese era stato il musicista Ian Brown, cantante della rock band britannica Stone Roses, il cui account da artista era stato rimosso da Spotify nel marzo 2021, dopo la pubblicazione di una canzone che nel testo parlava di «microchip sottopelle» iniettati attraverso il vaccino.

Il primo podcaster a finire nella morsa delle nuove regole era stato invece Pete Evans, complottista australiano che si era reso protagonista di disinformazione a tema Covid-19 e di propaganda di simboli neonazisti: in questa circostanza Spotify si era dimostrata piuttosto zelante, anticipando tutte le altre piattaforme di streaming audio sul mercato, che continuano invece a ospitare il podcast di Evans, come Apple Podcast e Google Podcasts.

Il problema di Spotify non risiede dunque nell’assenza di regole, ma semmai nella loro applicazione pratica. Un problema che non si limita al pur notevole conflitto di interessi manifestato dal caso Rogan, ma che ha una natura in parte tecnica. Come ha raccontato il New York Times in un articolo del 12 novembre 2021, i podcast sono di fatto diventati il «selvaggio West» della comunicazione mediatica, una terra di nessuno in cui proliferano radio show di estrema destra e messaggi in aperto contrasto con le evidenze scientifiche attualmente disponibili sulla pandemia di coronavirus, senza che le principali aziende del settore (Apple e Spotify) facciano alcunché per contrastare il fenomeno.

Il problema, in questo caso, ha a che fare con i costi di moderazione, che sono decisamente più alti rispetto a quelli sostenuti da piattaforme già attive nel fact-checking come Facebook e Twitter. Ciò ha a che fare con la natura stessa dello strumento, che non permette l’analisi di testi scritti – più facilmente elaborabili con l’utilizzo di software –, ma che lascia come unica opzione l’ascolto umano di ore e ore di registrazioni o in alternativa la trascrizione automatica di ogni singolo podcast. Opzioni costose (nel primo caso) o ancora suscettibili di imprecisioni tecniche (nel caso della trascrizione automatica), che non assicurano comunque una moderazione totalmente affidabile.

I podcast sono insomma la tempesta perfetta della disinformazione sul coronavirus, una tempesta che entro il 2024 dovrebbe sfondare il tetto dei 500 milioni di ascoltatori e che già oggi, secondo una ricerca del National Research Group, ha un pubblico composto perlopiù da under 40, che utilizzano il podcast come fonte primaria di informazione.

In conclusione

Nel 2021, la disinformazione sul coronavirus ha costretto le piattaforme digitali ad aumentare gli sforzi di moderazione per venire incontro alle richieste degli esperti e alle pressioni dell’opinione pubblica. Tra gli approcci che hanno funzionato meno  troviamo quello delle piattaforme di streaming audio.

Come ha sottolineato una recente lettera aperta redatta tra 270 tra scienziati, professori universitari, medici e operatori sanitari, il principale player del settore – Spotify – ha fatto troppo poco per contrastare la disinformazione online e i risultati sono evidenti soprattutto per quanto i riguarda i podcast. Il caso più emblematico è quello del noto comico americano Joe Rogan, autore del podcast più seguito al mondo e diventato nel 2021 uno dei più prolifici diffusori di disinformazione medica. Per assicurarsi l’esclusiva dello show, nel 2020 Spotify ha speso oltre 100 milioni di dollari, particolare che evidenzia un enorme conflitto di interessi nelle modalità di moderazione del programma.

Eppure nel corso della pandemia Spotify si è dotato di una severa policy sulla disinformazione medica, che aveva portato alla sospensione del musicista Ian Brown e alla rimozione del podcast di Pete Evans, autori di affermazioni in contrasto con le evidenze scientifiche a nostra disposizione su coronavirus e vaccini.

In generale, il problema dei podcast è piuttosto esteso e tocca tutte le piattaforme del settore. Il problema principale riguarda i costi di moderazione dei podcast, prodotti esclusivamente sonori che per questo sfuggono ai software di rilevazione automatica della disinformazione comunemente utilizzati dalle compagnie di social network. E questo è un problema rilevante, dal momento che secondo le previsioni gli ascoltatori di podcast supereranno quota 500 milioni entro il 2024 e che già oggi ad ascoltare le trasmissioni on demand è un pubblico composto perlopiù da under 40, che utilizzano il podcast come fonte primaria di informazione.

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