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Il Comitato Cure Domiciliari Covid: che cosa dice la scienza e perché ha la fiducia di tanti pazienti

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23 febbraio 2021
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Si può curare la Covid-19 a casa propria? Le linee guida ufficiali sulla gestione domiciliare dei pazienti Covid-19, pubblicate dal Ministero della Salute il 30 novembre 2020, non forniscono una vera e propria terapia. La strategia è di cosiddetta «vigile attesa»: misurazione periodica dell’ossigenazione del sangue con il saturimetro, trattamento dei sintomi come la febbre con il paracetamolo, e solo in alcuni specifici casi l’uso di farmaci, quali l’eparina e i corticosteroidi (ad esempio il desametasone). La Covid-19 quindi o si risolve da sola o, se peggiora, richiede il ricovero in ospedale.

Ci sono però medici che ritengono si possano fermare in modo efficace molte delle conseguenze più gravi della Covid-19 a casa propria, utilizzando farmaci non raccomandati dalle organizzazioni ufficiali come l’idrossiclorochina. Alcuni di questi medici si sono organizzati prima sui social network e poi in una vera e propria associazione, il Comitato Cure Domiciliari Covid, tramite la quale chiedono che il loro protocollo di cura domiciliare venga riconosciuto ufficialmente.

Si tratta di un’associazione che sui social network è seguita da oltre 100.000 persone e ha fatto molto parlare di sé sui media, quasi sempre positivamente. Sui quotidiani, come in questo articolo del Giorno o questo del Giornale, in cui vengono definiti «eroi» di un «esercito» inascoltato. Ma anche in televisione, come ad esempio nel servizio andato in onda il 9 febbraio 2021 all’interno della trasmissione di Rete4 Fuori dal Coro, con ospite uno dei medici del Comitato, Andrea Mangiagalli, in cui il conduttore Mario Giordano si è schierato fortemente a favore. Un altro medico del Comitato, l’oncologo Luigi Cavanna, il 9 aprile 2020 è stato soggetto di un articolo della rivista americana Time.

Ma è davvero possibile curare la Covid-19 a casa? Che cosa sappiamo sulle terapie proposte dal Comitato Cure Domiciliari? Perché le istituzioni sanitarie come l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) non le raccomandano? E per quale motivo i medici hanno guadagnato così tanta popolarità? Vediamo quali sono i fatti.

Che cos’è il Comitato Cure Domiciliari Covid

Il sito web del Comitato Cure Domiciliari Covid offre una ricostruzione dettagliata della propria storia. Il fondatore del comitato non è un medico ma l’avvocato Erich Grimaldi del Foro di Napoli, che già il 14 marzo 2020 aveva creato il gruppo Facebook “#EsercitoBianco”, concentrato sul supporto agli operatori sanitari impegnati nella lotta contro la Covid-19.

Il gruppo si è evoluto in un altro gruppo Facebook fondato il 19 aprile 2020, chiamato “#TerapiaDomiciliareCovid19 in ogni Regione”, dove (secondo il sito web del Comitato) si confrontano medici di varie regioni per coordinarsi sulle terapie domiciliari precoci. È lo stesso periodo in cui i “Medici in Prima Linea” della Lombardia, dal nome del gruppo Whatsapp in cui si coordinavano, hanno inviato una lettera aperta in cui, come primo punto, veniva chiesta l’autorizzazione all’intervento precoce a domicilio usando idrossiclorochina, azitromicina ed eparina. Il primo dei firmatari della lettera era il dottor Andrea Mangiagalli di Pioltello (Milano), che poi sarebbe diventato parte del consiglio scientifico del Comitato e sarebbe entrato in contatto con gli altri medici tramite il gruppo Facebook di Grimaldi.

Nel gruppo Facebook “#TerapiaDomiciliareCovid19”, tuttora molto attivo e che conta oltre 100.000 membri, i post vengono regolarmente pubblicati da numerosi pazienti Covid-19 o sospetti tali, o loro familiari, che vengono messi in contatto con medici disponibili ad assisterli. Dall’esperienza di questo gruppo, a novembre 2020, è nato il Comitato. Questo, oltre a Grimaldi, si compone dall’avvocato Valentina Piraino nel ruolo di vicepresidente, di un consiglio scientifico di sette medici e di una portavoce (Valentina Rigano).

Il Comitato inoltre sarebbe in contatto con medici all’estero, in particolare con medici di Rio de Janeiro (in Brasile le terapie a base di idrossiclorochina e altri farmaci promossi dal Comitato sono molto popolari) e con l’epidemiologo americano Harvey Risch, specializzato in epidemiologia dei tumori e affiliato alla Yale School of Public Health, uno dei pochi medici americani tuttora convinto dei benefici dell’idrossiclorochina e promotore, come vedremo in seguito, di protocolli terapeutici molto simili a quelli del Comitato.

L’azione pubblica più concreta e nota del Comitato è stata l’azione legale che ha costretto l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) a permettere l’uso dell’idrossiclorochina nella terapia di Covid-19. Del caso e della sentenza avevamo parlato in questo articolo.

Che cosa sappiamo dello «schema terapeutico di cura domiciliare»

Il cosiddetto «schema terapeutico di cura domiciliare», come definito sul sito del Comitato, è il cuore della terapia promossa dal Comitato stesso, ma non è pubblicamente disponibile.

Come ci ha detto il dottor Andrea Mangiagalli, uno dei responsabili scientifici del Comitato con cui Facta ha parlato, lo schema viene diffuso esclusivamente tra i medici coinvolti all’interno di gruppi privati Facebook, Whatsapp e Telegram, per evitare che le persone lo possano adottare come cura “fai da te”. I medici del Comitato insistono molto sul fatto che le cure domiciliari devono essere adattate alle condizioni di ogni paziente.

Mangiagalli ci ha detto che, in linea generale, lo schema terapeutico è basato sulla somministrazione di idrossiclorochina, di eparina «a dosaggio profilattico» (quindi a scopo di prevenzione) e di azitromicina. In caso la saturazione dell’ossigeno nel sangue inizi a scendere, si aggiunge anche il desametasone, un antinfiammatorio che normalmente si usa per la terapia di allergie, malattie dermatologiche, asma e altri disturbi. Infine Mangiagalli raccomanda, almeno in alcuni casi, un trattamento con vitamina D. Il trattamento andrebbe fatto precocemente, quando ci sono sintomi suggestivi per Covid e qualora il paziente sia in una fascia di rischio: oltre i 50 anni di età e con altre malattie importanti come diabete, broncopatie o tumori.

Secondo il Comitato, non c’è bisogno di aspettare il tampone per iniziare le cure: tanto che gli avvocati Grimaldi e Piraino, il 6 maggio 2020, hanno ottenuto dalla regione Lazio il diritto per i medici di somministrare cure per la Covid-19 senza dover aspettare il tampone positivo.

Un esempio di schema terapeutico simile è stato pubblicato dall’epidemiologo statunitense di riferimento del Comitato, Harvey Risch, in questo articolo scientifico del 6 agosto 2020:

Il protocollo come descritto nell’articolo di Risch (Licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0)

Il protocollo include sia medicinali effettivamente efficaci contro la Covid-19 sia altri la cui efficacia non è considerata provata dalla comunità scientifica. Di molti di questi farmaci e delle evidenze scientifiche sulla loro utilità ci eravamo già occupati (qui, qui, qui, qui e qui).

A oggi, le evidenze scientifiche più recenti sui possibili farmaci contro la Covid-19 sono raccolte ad esempio in questo articolo, aggiornato al 17 dicembre 2020, del British Medical Journal, che contiene anche una utile visualizzazione interattiva e nella mappatura costantemente aggiornata sugli studi clinici, supportata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), del progetto Covid-Nma, disponibile qui.

Tra i farmaci che compongono lo schema terapeutico del Comitato, solo eparina e desametasone hanno effettivamente dimostrato di mitigare il decorso della Covid-19 in studi clinici in doppio cieco: la prima agisce sulla coagulazione del sangue, il secondo mitiga le reazioni eccessive del sistema immunitario. Questi farmaci sono parte dell’attuale protocollo previsto dal Ministero della Salute, anche se l’uso è previsto solo in casi molto specifici.

Il consenso scientifico su idrossiclorochina e azitromicina è invece negativo: numerosi studi clinici, in varie condizioni, non hanno mostrato un effetto positivo sulla Covid-19. Per questo l’Aifa al momento non raccomanda né idrossiclorochinaazitromicina nella terapia della Covid-19. In questo l’Aifa è coerente con quanto affermato dall’Oms, dall’European Medicine Agency (Ema) e dalla Food and Drug Administration (Fda) statunitense.

Su altri supplementi nutrizionali, come la vitamina D, o farmaci come la colchicina, al momento non ci sono prove significative. L’uso di farmaci che non si sono dimostrati efficaci, o su cui c’è ancora molta incertezza, è il nodo cruciale su cui il Comitato si trova in contrasto con la comunità scientifica e con gli attuali protocolli di cura domiciliare del Ministero della Salute.

Vediamo in dettaglio un esempio importante, quello dell’idrossiclorochina, per capire meglio la controversia.

Il caso dell’idrossiclorochina

Di tutti i farmaci controversi alla base dello schema di terapia domiciliare, quello su cui ruota gran parte della polemica e con più dati a disposizione è la famosa idrossiclorochina. Una storia analoga si potrebbe scrivere per azitromicina, vitamina D e altre terapie proposte dal protocollo.

Nota in Italia col nome commerciale di Plaquenil e originariamente farmaco antimalarico, l’idrossiclorochina è oggi normalmente prescritta contro malattie autoimmuni quali l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso. L’idrossiclorochina e la clorochina sono note da tempo per avere un effetto antivirale negli esperimenti in vitro, anche contro il virus Sars-CoV-2 responsabile della Covid-19.

In passato l’idrossiclorochina e la clorochina sono state studiate in laboratorio o in studi clinici e proposte come terapia contro i virus Hiv, Zika, dengue, influenza, epatite C, e altri coronavirus come Sars-Cov-1 e Mers-CoV. Finora però, alla prova degli studi clinici, non è risultata una terapia efficace in nessuno di questi casi. Con la pandemia di Covid-19 l’idrossiclorochina è salita alla ribalta, specie dopo che personalità politiche come l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump o il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ne hanno decantato l’efficacia, così che il farmaco è diventato un caso esemplare di polarizzazione politica della scienza.

Veniamo alla posizione del Comitato per le Cure Domiciliari. L’opinione scientifica sull’idrossiclorochina dei medici del Comitato è contenuta, di nuovo, in un documento non disponibile al pubblico (ma che il dottor Mangiagalli ha gentilmente fornito a Facta). Si tratta della relazione scientifica che il Comitato ha fornito al Consiglio di Stato durante il contenzioso con Aifa. In questa relazione, dove vengono analizzati numerosi studi sul farmaco, si pone l’accento sul fatto che gli studi attualmente disponibili sono principalmente condotti su pazienti già ospedalizzati, o viceversa pazienti paucisintomatici/asintomatici, addirittura come profilassi prima dell’infezione, e spesso a dosaggi molto elevati.

Lo schema terapeutico del Comitato invece è mirato su una classe specifica di pazienti: coloro che non si trovano ancora in ospedale, ma che hanno sintomi rilevanti e fattori di rischio e che verrebbero trattati con dosi basse di farmaco. È difficile spiegare scientificamente come mai l’idrossiclorochina sia efficace a dosi basse ma non elevate, né come mai funzionerebbe solo su questo specifico sottoinsieme di pazienti – mentre ad esempio è inefficace su pazienti meno gravi trattati con dosaggi analoghi, come riscontrato da uno studio clinico citato dal Comitato stesso nella relazione scientifica. Sta di fatto comunque che, secondo il Comitato, non ci sono veri e propri studi clinici sperimentali che prendono in esame l’esatto protocollo da loro adottato, e quindi non è possibile affermare che l’idrossiclorochina, nell’uso da loro proposto, sia inefficace.

Il Comitato si rivolge quindi ai cosiddetti studi osservazionali, che indicherebbero invece alcune capacità del farmaco nel ridurre ospedalizzazioni e decessi. Secondo il Comitato, questi studi andrebbero presi in considerazione in attesa di studi clinici mirati: come ci ha detto Mangiagalli «in una condizione in cui nessuno riesce a produrre evidenze di prima qualità ci dobbiamo fidare degli studi osservazionali, che fino a 20 o 30 anni fa erano la base su cui fondavamo la scienza medica».

Diversa l’opinione di Antonio Addis, medico e parte del comitato scientifico di Aifa, il quale ha detto a Facta che gli «piacerebbe se questi medici avessero ragione, ma così non è. Non ci sarebbe alcun motivo di non usare l’idrossiclorochina, se solo fosse efficace». Secondo Addis, in studi clinici correttamente eseguiti l’idrossiclorochina ha sempre fallito, a prescindere dai dosaggi e dal tipo di pazienti presi in esame. Allo stesso modo, ha contestato che i medici possano attribuire le guarigioni che osservano a uno specifico farmaco o al protocollo: «Negli studi osservazionali si vede qualche effetto, ma ci sono talmente tanti effetti confondenti per cui non si sa veramente di che si tratti».

Che cosa significa? Gli studi osservazionali, ovvero in cui si osserva cosa succede ai pazienti che ricevono un farmaco senza un vero gruppo di controllo, sono viziati sempre da fattori confondenti, cioè circostanze indipendenti dal farmaco che possono cambiare la risposta tra chi prende il farmaco e chi no. È vero che, presi complessivamente, i risultati degli studi osservazionali in medicina non sono molto diversi da quelli degli studi clinici, ma accade spesso che terapie promettenti negli studi osservazionali si rivelino inutili di fronte a studi rigorosi. Come tali, questi studi possono quindi fornire dati meritevoli di un approfondimento, ma da soli non possono confermare che una terapia funzioni.

Per esempio, il Comitato nella relazione scientifica fa notare come la percentuale di ricoveri ospedalieri nei pazienti Covid-19 trattati dai medici del Comitato stesso sia molto inferiore a quella media. Ma non c’è modo di sapere se le persone trattate da questi medici, rispetto al complesso degli infetti da Covid-19, abbiano la stessa età media, se siano più o meno sane, quale sia il loro livello socioeconomico, se altri pazienti sono stati seguiti altrettanto assiduamente, e così via. È difficile quindi trarre conclusioni oggettive da questo dato (Facta ha provato a chiedere al dottor Mangiagalli ulteriori informazioni sui campioni di pazienti curati dal Comitato per comprendere meglio questo punto, ma non ha ottenuto una risposta informativa).

Un altro argomento del Comitato è che, in ogni caso, non ci sarebbero controindicazioni significative all’uso di idrossiclorochina per brevi periodi, e quindi non ha senso evitare il farmaco. Su questo sia il Comitato sia le evidenze scientifiche disponibili sono almeno parzialmente d’accordo: il rischio di aritmia cardiaca (uno dei principali effetti collaterali dell’idrossiclorochina) esiste in teoria ma sembra minimo nei regimi finora testati. È però vero che, nei pazienti ricoverati in ospedale, il rischio di morte per cause cardiache è leggermente più alto con l’uso di idrossiclorochina. In ogni caso ricordiamo che, se si decide di assumere questo farmaco, va fatto assolutamente sotto stretto controllo medico.

In conclusione, dal punto di vista scientifico è difficile giustificare appieno quanto sappiamo dello schema terapeutico del Comitato per le Cure Domiciliari. Alcuni dei farmaci utilizzati, come eparina e cortisonici, sono effettivamente farmaci efficaci contro la Covid-19, e infatti sono presenti anche nei protocolli del Ministero della Salute. Altri – a quanto ne sappiamo – non sono utili, e le evidenze scientifiche a loro favore sono nel migliore dei casi molto deboli, come abbiamo analizzato in dettaglio nel caso dell’idrossiclorochina. Si tratta insomma di una miscela di terapie che sappiamo essere efficaci e altre che restano, nella migliore delle ipotesi, un’incognita, in cui è difficile districare quale sia il contributo reale di ciascun farmaco, i benefici e i rischi.

Lo stato reale dell’assistenza a domicilio

Fin qui i dati scientifici sui farmaci. Ma val la pena chiedersi se il Comitato per le Cure Domiciliari e i medici che vi afferiscono, a prescindere dal rigore scientifico, non stiano in realtà intercettando una carenza dell’attuale assistenza medica fornita in Italia ai malati di Covid-19.

In Italia l’assistenza domiciliare ai malati di Covid-19 è teoricamente delegata alle Unità speciali di continuità assistenziale (Usca), introdotte dal decreto legge n.14 del 9 marzo 2020, il cui scopo è di alleviare il carico sui medici di base. In teoria dovrebbe esserci un’Usca ogni 50.000 abitanti ma, come rilevato da varie inchieste (es. qui, qui, qui) fino all’autunno 2020 non c’erano numeri precisi sulle Usca effettivamente attivate, che comunque erano molto inferiori a quelle previste.

Dopo novembre 2020 le regioni hanno portato rapidamente il numero delle Usca a 1.312, un numero superiore addirittura a quello previsto dal decreto, anche se rimangono disparità tra le diverse aree territoriali. Il vicesegretario della Federazione Italiana Medici di Famiglia (Fimmg) ha chiarito però al portale Sanità Informazione, il 21 gennaio 2020, che ci sono ancora molte criticità: «Nel reclutamento le regioni sono state lasciate sole. Non c’era chiarezza neanche su cosa dovessero fare le Usca. Diagnosi, trattamento, terapia, assistenza: ci sono tante possibilità. È rimasto un decreto appeso al muro e poi, come sempre, ‘ognuno se la cavi come meglio crede’».

Ci sono evidenze che, almeno in alcuni territori, le Usca non riescano a gestire tutti i pazienti. La carenza di personale medico, secondo il segretario della Fimmg Vincenzo Scotti è recentemente peggiorata a causa dell’ulteriore carico di lavoro dovuto alle vaccinazioni.

In generale, la progressiva carenza dei medici di base è un problema noto in Italia da prima della pandemia, a causa del grande numero di medici che vanno in pensione e non vengono sostituiti da nuove leve. Nel 2018 la Fimmg aveva previsto un saldo negativo di oltre 22.000 medici di base tra 2018 e 2028: quasi 33.400 medici andranno in pensione tra 2018 e 2028, per essere sostituiti solo da 11.000 nuovi medici, se le borse di formazione continueranno al ritmo attuale di 1.100 annue. Un calo netto quindi di oltre il 40 per cento nell’assistenza medica di base: i medici generalisti in Italia, nel 2019, erano circa 54.000. Il calo totale dei medici entro il 2028, considerando anche gli specialisti, supererebbe le 80.000 unità.

In questa situazione è inevitabile che molti pazienti Covid-19 soffrano di un’assistenza domiciliare inadeguata. Azioni come quella del Comitato Cure Domiciliari, che creano un network per collegare medici volontari a pazienti altrimenti poco seguiti e con poche opzioni terapeutiche scientificamente valide, sopperiscono in parte a questa carenza. Con in più la prospettiva di una terapia contro una malattia angosciante, verso la quale le opzioni disponibili finora sono molto poche.

Il dottor Antonio Addis della commissione tecnico scientifica dell’Aifa ci ha detto in proposito: «È molto probabile che i medici di questi comitati riescano in cose che altrimenti non si riescono a fare. Anche solo portando assistenza a casa dei pazienti, riempiono uno spazio vuoto. E dove ci sono degli spazi qualcuno li riempie, anche se non sempre con cure non scientificamente consolidate. Non a caso molte di queste realtà si sono sviluppate in Lombardia, dove c’è stato uno smantellamento sistematico dell’assistenza territoriale.»

In conclusione

Le terapie proposte dal Comitato Cure Domiciliari Covid sono in una zona grigia, né pseudoscientifica né pienamente basata su prove. Le loro ipotesi si basano su presupposti di per sé scientifici, come prove di funzionamento in vitro, e alcuni dei farmaci da utilizzati sono effettivamente efficaci e parte dei protocolli ufficiali di cura a domicilio contro la Covid-19. Altri farmaci, però, sebbene con dati preliminari che sembravano promettenti, hanno dimostrato – in praticamente tutti gli studi clinici rigorosi – di non essere capaci di funzionare, anche se potrebbero mancare evidenze solide su alcuni precisi tipi di dosaggi e categorie di pazienti e quindi l’argomento non è del tutto chiuso dal punto di vista scientifico.

In ogni caso il Comitato non pubblica i propri schemi terapeutici, né rilascia pubblicamente la propria controanalisi della letteratura accademica, rendendo impossibile una valutazione aperta da parte della comunità scientifica. Sia il dottor Mangiagalli del Comitato, sia il dottor Addis di Aifa, ci hanno detto che le due realtà hanno tentato di dialogare, ma entrambi hanno descritto l’interazione con l’altra parte come per nulla proficua.

Resta il fatto che le criticità dell’assistenza domiciliare ai malati Covid-19, in particolare la carenza di personale rispetto all’altissimo numero di pazienti, sono reali e concrete, e a lungo termine sembrano in via di peggioramento. In questa situazione non stupisce che una realtà come quella del Comitato, che ha organizzato tramite social network una rete che mette in comunicazione sia i medici coinvolti sul territorio, sia i pazienti con i medici disposti ad aiutarli, abbia goduto di enorme successo a prescindere dal rigore scientifico delle terapie da essi proposte.

I medici del Comitato sono sconcertati dal fatto che in gran parte il protocollo domiciliare ufficiale si limiti ad attendere lo sviluppo della malattia, intervenendo in modo mirato con farmaci solo in alcuni casi. Ma forse questo dipende dalla nostra fame di risposte anche quando non ci sono. Come ci ha detto sempre Antonio Addis: «questi fenomeni si sviluppano dove la scienza non sa dare risposte rapide e tempestive. La scienza non ha abituato il pubblico a sentirsi dire “io non lo so”, ma continua a dire “io so”. Abbiamo disabituato i pazienti a capire che a volte, semplicemente, non sappiamo cosa fare».

Ringraziamo il dr. Andrea Mangiagalli e il dr. Antonio Addis per la gentile disponibilità. Ringraziamo anche per discussioni e assistenza il dr. Loris Menegazzi e i colleghi Roberta Villa, Fabio Turone, Serena Fabbrini e Ilario d’Amato. 

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